di Julius Evola
Tratto da “La Vita Italiana”, XXVIII, 327, giugno 1940
segue dalla seconda parte
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La nobiltà ebraizzata: il compito pratico
Se l’eredità è una condizione e le tradizioni non si inventano, sarebbe logico cercare nei ceppi aristocratici esistenti almeno una parte degli elementi necessari per l’opera di cui si è detto, e con la quale si condurrebbe a termine la lotta antiborghese. Purtroppo questa soluzione, in Italia, incontra varie difficoltà. La principale sta nel fatto che la nobiltà italiana, in scarsissima misura è stata una nobiltà feudale. Ora, la relazione fra un titolo e un potere è condizione imprescindibile in ogni vera aristocrazia. Occorre avere una terra, ove si possa esercitare una specie di parziale sovranità e si mettano alla prova le capacità di prestigio, di responsabilità, di organizzazione e di giustizia; occorre una terra da amarsi e da trasmettersi come la stessa tradizione del nome e del sangue e da tutelare per esser la base materiale del decoro e dell’indipendenza di una famiglia. Ciò si è verificato assai poco in Italia. Troppi titoli nobiliari sono stati conferiti, nel passato, a cuor leggero dalle case regnanti, come semplici orpelli e strumenti di vanità mondana, se non anche di corruzione: giacchè chi ha un titolo e non la potenza e la ricchezza, ed è preso nella fiera delle vanità dei salotti e delle corti, è sempre esposto alla tentazione di procurarsi con ogni espediente i mezzi per un tenore artificiale e convenzionale di vita. E si sa bene fino a che punto ciò ha facilitato le manovre d’infiltrazione dell’Ebraismo.
Del pari, in Italia non vi è stato modo di utilizzare sistematicamente un ben definito ceto nobiliare nei termini di una vera e propria classe politica, di porre costantemente il nobile di fronte a funzioni e a compiti precisi, che gli siano naturali, nei quali si possa mettere alla prova la sua reale capacità e impedire che ciò che il sangue e la tradizione han dato in dono al singolo stagni, intristisca e decada. E, con queste, varie altre circostanze han fatto a poco a poco sì che le condizioni attuali della aristocrazia, anche di quella italiana, non siano proprio ideali.
Che, qui, non ci si facciano presenti le eccezioni. Non è di eccezioni che si tratta, giacchè, allora, anche una certa borghesia potrebbe rivendicarne. Si tratta invece di una èlite ben visibile ed omogenea, che testimoni in modo univoco dello spirito e del livello di una civiltà e di una società, per rappresentare una tradizione, nel senso più alto e spirituale del termine. Ora, sarebbe azzardato cercare qualcosa che anche da lontano si avvicini a tanto nei salotti e negli ambienti del nostro cosiddetto “gran mondo”, luoghi di convegno di ogni specie, di “ben nomi” ma, in pari tempo, di snobismi, di internazionalismi e di frivolità di ogni genere. Chiamiamo pure le cose col loro vero nome: se vi è una antitesi reale alla vera nobiltà, essa è proprio costituita da questa aristocrazia “mondana” e profana, fatta di matrone pittate e di semi-vergini correnti da un tè all’altro, da un flirt ad un altro, di giuocatori di bridge e di esecutori impeccabili delle danze più esotiche e ridicole, vera fiera di ogni vanità e di ogni superficialità, facciata dorata e cosmopolita che nasconde il nulla intellettuale e lo scetticismo spirituale anche quando essa apre le sue porte e accoglie nei suoi pranzi e nelle sue partite di cocktail il “brillante” letterato, il romanziere in voga, il critico laureato, il pontefice delle terze pagine. Dove è la durezza, dove l’ascesi della potenza, dove il disprezzo del vano che ebbe in proprio l’aristocrazia, quando fu davvero una casta dominatrice? Che ne è di quell’antico titolo ario degli aristocratici “I nemici dell’oro”? L’imparentamento della nobiltà internazionale con americane, tanto ricche quanto stupide e presuntuose e con la plutocrazia ebraica, è un fatto ben documentato e, se, per fortuna, da noi non ha raggiunto le proporzioni di altre nazioni, pure quanti fra di noi non sono si assuefatti a confondere la superiorità con la ricchezza e ad accogliere il parvenu che abbia imparato i modi della clique e, per mezzo di opportune relazioni e perfino di complicità femminili, si sia introdotto nel “gran mondo”? E se in alcuni ambienti di una nobiltà detta “nera”, o affini, la spregiudicatezza mondana, cosmopolita e modernista non ha ancora vinto un certo tradizionalismo, in questo tradizionalismo che cosa sussiste dello spirito tradizionale vero e vivente, della sua forza e della sua intransigenza ascetica ed eroica, cose non aventi nulla da fare col conformismo codino, col pregiudizio, con il moralismo?

Carlo Magno investe Rolando e gli consegna Durlindana (miniatura fine XIII sec. – inizio XIV sec.)
Il problema di una nuova aristocrazia antintellettualistica, ascetica ed eroica, quasi feudale e barbarica nella sua durezza e inattenuazione di forme, non improvvisata, ma legittimantesi con una tradizione e con una “razza”, è fondamentale, se la civiltà borghese deve esser superata non con articoli da giornale, ma con i fatti, e se si deve venire a quella articolazione qualitativa dello Stato di là dal totalitarismo, di cui si è già detto. Ma tanto fondamentale è questo problema, quanto arduo da risolvere. Fino a che punto si può pensare ad un risveglio e ad una rintegrazione delle qualità divenute latenti o degenerescenti nella sopravvivente nobiltà e fino a che punto sarà necessario “ricominciare”, sforzarsi di creare i germi di una nobiltà nuova, non definita da meriti e abilità individuali di tipo laico e borghese ma da una formazione superiore di vita, da trasmettere gelosamente col sangue alla futura discendenza?
Certo è che, in ogni modo, bisognerebbe prevenire la possibilità delle confusioni e far di tutto a che i morti si distinguano dai vivi. Il fatto che vi è una quantità di gente avente il diritto di portare un titolo nobiliare solo perché la Consulta Araldica lo ha riconosciuto regolare e perché essa fa una vita “in ordine” con le convenzioni borghesi e col Codice Penale, per noi rappresenta qualcosa di letale per il prestigio, la potenza e le possibilità di riascesa della vera aristocrazia. Tradizioni di titoli che non servono a nulla, se non come motivi di privata e mondana vanità, ovvero solo per aprirsi artificialmente delle vie, noi pensiamo che siano incompatibili con lo spirito realistico del fascismo e, nello stesso tempo, che essi dovrebbero essere oggetti di un preciso disprezzo da parte di chiunque si senta veramente aristocratico e vuole l’aristocrazia come una potenza e come una realtà, non come un fumo e un orpello da salotti parigini. Noi pensiamo che una revisione e una selezione nella nobiltà nominale araldica si impongano. Se con anima di borghese si può aver il diritto di portare un titolo aristocratico, è evidente che questo titolo non vale più nulla, non è più segno di nulla, è strumento non di distinzione, ma di confusione.
La prova, alla quale la sopravvivente nobiltà potrebbe esser sottoposta ai fini di una discriminazione, sarebbe in fondo assai facile. Si tratterebbe di costringere a non rinunciare. Come nelle civiltà tradizionali, il titolo, la potenza e una carica dovrebbero di nuovo essere unite inscindibilmente. Chi ha un titolo ed è un uomo, dovrebbe esser spinto fuori dalla vuota vita dei salotti, dei tè, degli alberghi alla moda e del “gran mondo”, dovrebbe esser costretto a riassumere ciò che fu già di pertinenza ai suoi padri – se la sua nobiltà era vera – e a cui egli, nel mondo moderno, di buon animo ha rinunciato per potersi degradare in quella vita mondana: col titolo, egli dovrebbe esser costretto ad assumere una carica e una potenza, in assoluta responsabilità e con la premessa che per lui dovrà esser naturale il dare, ciò che per gli altri sarebbe eccezionale e innaturale. Solo superando questa prova, il titolo sarebbe confermato e averlo significherebbe qualcosa.
Non importerà, se in questa prova del fuoco molti cadranno. Ciò sarà solo un bene per l’aristocrazia. Infatti, a questa sola condizione, l’aristocrazia potrà risorgere selezionata e dominatrice ed offrire elementi preziosi per integrare la gerarchia propriamente politica del nuovo Stato con una specie di Ordine nuovo, efficace direttamente attraverso le qualità e l’alta tenuta interiore. Mancando questo contributo, sarà difficile supplire solo con dei surrogati e permarrà la confusione: vi sarà un’aristocrazia dello spirito che non è quella di classe, cioè aristocrazia patrizia, e una aristocrazia patrizia e araldica come una sopravvivenza a lato di una aristocrazia vera di isolati, il tutto oscillante fra la nebbia delle imitazioni borghesi dell’èlitismo. La costruzione dura, romana del nuovo Stato, specie se sarà collaudata da una nuova grande esperienza eroica, è destinata ad elevarsi rapidamente di là da questa nebbia.
'Significato dell’aristocrazia per il fronte antiborghese (III parte)' has no comments
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