Nel giorno del 70° anniversario della nascita della Repubblica italiana, data che ha sancito la definitiva fine di ogni speranza di rinascita spirituale del nostro paese, vi presentiamo la seconda ed ultima parte del saggio di Evola a corredo dell’opera “La monarchia nello Stato moderno” di Karl Loewenstein. In questa seconda parte, vengono affrontati gli aspetti relativi al piano positivo, istituzionale e costituzionale della Monarchia (con buona pace di chi parla ancora di “impoliticità” di Evola…). Buona lettura!
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segue dalla prima parte
Dopo aver considerato l’aspetto spirituale del problema della monarchia, è necessario indicare gli aspetti che si riferiscono al piano positivo, istituzionale e costituzionale. Su tale piano bisognerà ora precisare la funzione specifica da attribuire alla monarchia e ciò che differenzia un sistema monarchico da altri sistemi. Stupisce che un simile problema non venga quasi affatto affrontato dalla propaganda dei monarchici. Nelle elezioni si sono avuti, anche in Italia, discorsi di monarchici i quali hanno accusato, più o meno sulla stessa linea di altri settori dell’opposizione, le disfunzioni dello Stato repubblicano democratico e partitocratico, e il pericolo del comunismo, guardandosi però dall’indicare, senza mezzi termini e senza paura, in quali termini la presenza della monarchia andrebbe ad eliminare positivamente le une e l’altro, o, per meglio dire, in virtù di quali particolari prerogative la monarchia sarebbe da tanto.

Evola spiega come il potere di suprema istanza che dovrebbe spettare al sovrano possa essere esercitato, come nel caso del cancelliere Bismarck, anche da un primo ministro capace e deciso
Se si è veramente monarchici, non si può ammettere che la monarchia si riduca ad una semplice istituzione decorativa e di rappresentanza, una specie di bel sovramobile o, secondo l’immagine ricordata dal Loewenstein, qualcosa come la figura dorata che si metteva sulla prua di un galeone; lo Stato, in concreto, resterebbe quello delle democrazie parlamentari repubblicane, al re spettando solamente di controfirmare, come farebbe un presidente di repubblica, tutto ci ò che governo e parlamento deliberano. La restaurazione dovrebbe invece comportare una specie di rivoluzione (o di contro-rivoluzione) monarchica.
Alla nota formula «il re regna ma non governa», si dovrebbe contrapporre l’altra: «Il re regna e governa» — governa, naturalmente, non nei termini delle monarchie assolute di altri tempi, bensì, in via normale, nei quadri di un diritto e di una costituzione stabiliti. A tale riguardo il migliore esempio è stato proprio quello offertoci dalle precedenti monarchie centro-europee, per le quali il Loewenstein non ha nascosto la sua decisa antipatia. Al sovrano dovrebbe essere riservato non soltanto un potere regolatore, moderatore e arbitrale rispetto alle varie forze politiche ma altresì quello di una suprema istanza. Della costituzione e del diritto non si debbono fare dei feticci. Costituzione e diritto non cadono belli e fatti dal cielo, sono formazioni storiche e la loro intangibilità è condizionata dal corso normale delle cose. Quando questo corso viene meno, quando ci si trova di fronte a situazioni di emergenza, deve farsi valere positivamente un superiore potere che per essere rimasto latente e inattivo nelle condizioni normali, non per questo cessa di costituire il centro del sistema. Il re è il soggetto legittimo di tale potere. Egli può e deve esercitarlo ogni volta che sia necessario, dicendo: «Fin qui, e non più oltre», prevenendo sia ogni movimento rivoluzionario eversivo (prevenendolo mediante una «rivoluzione dall’alto»), sia qualsiasi rivolgimento dittatoriale la cui unica giustificazione è la mancanza di un vero centro di autorità.
Non è detto che un simile potere debba essere esercitato direttamente dal sovrano; esso può esserlo per mezzo di un Cancelliere o primo ministro capace e deciso che, forte dell’appoggio della Corona e responsabile essenzialmente di fronte ad essa, può far fronte alla situazione. Il caso di Bismarck nel «conflitto istituzionale» ricordato dal Loewenstein corrisponde a questa possibilità. Sicuro della fiducia del sovrano, Bismarck poté tener anche in nessun conto l’opposizione del parlamento e seguendo la sua via fece la grandezza della Germania, ricevendo successivamente, in una nuova costituzione, la sanzione del suo operato.

“in parte, una situazione analoga a tutta prima si ebbe quando il re d’Italia appoggiò Mussolini concedendogli poteri che però lui stesso, Vittorio Emanuele, (…) avrebbe potuto esercitare”
Ci si potrebbe arrischiare a dire che, in parte, una situazione analoga a tutta prima si ebbe quando il re d’Italia appoggiò Mussolini concedendogli poteri che però lui stesso, Vittorio Emanuele, se non si fosse sentito così vincolato costituzionalmente, avrebbe potuto esercitare, tanto da imporre un ordine all’Italia sconvolta dalla sovversione e dalla crisi sociale mediante nuove strutture, senza aver bisogno del fascismo, e prevenendo quegli sviluppi — da alcuni definiti nei termini di una «diarchia» — che alla fine minarono in una certa misura la sua posizione per la presenza, quasi, di uno Stato entro lo Stato.
Nelle ore decisive un sovrano non dovrebbe mai dimenticare il detto di un’antica sapienza: Rex est qui nihil metuit (È re chi nulla teme). Per un male inteso umanitarismo, in casi estremi perfino il pericolo di lotte nelle quali possa scorrere il sangue non deve impaurire perché qui non si tratta delle persone, ma di far regnare, al disopra di tutto, l’autorità, l’ordine e la giustizia contro le eventuali agitazioni di parte. La formula, l’abbiamo già indicata: «Fin qui, e non oltre». In situazioni non eccezionali la concezione di Benjamin Constant della Corona come «quarto potere», come una funzione arbitrale e equilibratrice può essere accettata. Anche i diritti riconosciuti dal Bagehot alla Corona: diritto di essere interpellata, diritto di incitare, diritto di dare orientamenti, sono ineccepibili.
Pertanto, con una restaurazione monarchica dovrebbe venire effettuato uno spostamento del centro di gravità. Una rappresentanza nazionale può anche essere eletta dal «popolo», secondo l’una o l’altra modalità (su ciò torneremo), ma essa dovrebbe essere responsabile, in primis et ante omnia, di fronte al sovrano, secondo rapporti di una responsabilità personalizzata che già da sé chiuderebbe la via a tante forme di corruzione democratica. Il re dovrebbe essere, dunque, il supremo punto di riferimento, e dovrebbero essere sentiti gli accennati valori di lealismo e di onore, anziché essere, i rappresentanti, gli strumenti dei partiti e della misteriosa, labile entità «popolo» da essi strumentalizzata, ed a cui sola spetta il potere di conferma o di revoca secondo il sistema della democrazia assoluta, ossia del suffragio universale parificato.

“A voler considerare i partiti, il sistema migliore sarebbe quello bipartitico, ammettente una opposizione che agisca costruttivamente e dinamicamente entro il sistema, non al di fuori di esso o contro di esso” (nell’immagine, la House of Commons britannica, dove l’opposizione lealista si presenta con un ‘governo ombra’ completo)
D’altra parte, per un vero rinnovamento monarchico bisognerebbe aver presente l’ideale di uno Stato organico, per cui non può essere evitato il problema della compatibilità, in genere, della monarchia col sistema, appunto, della democrazia assoluta parlamentare. La sovrapposizione dell’una all’altro può dar luogo solamente a qualcosa di ibrido. E’ da ritenersi che se l’auspicato mutamento di mentalità si realizzerà, si verrà a poco a poco a riconoscere anche l’assurdità del sistema delle rappresentanze basato sul suffragio universale indiscriminato, cioè sulla legge del puro numero, avente per ovvio presupposto non la concezione del cittadino come una «persona» bensì la sua riduzione degradante ad un atomo indifferenziato intercambiabile.
A tale riguardo bisogna tener presente che una cosa è la democrazia nella sua forma assoluta moderna, un’altra è un sistema di rappresentanze, il secondo non coincidendo necessariamente con la prima. Si sa che un sistema di rappresentanze esistette anche negli Stati monarchici tradizionali, ma in genere come rappresentanze organiche, ossia di corpi, di ordini, di Stände [1] non di partiti ideologici. A voler considerare i partiti, il sistema migliore sarebbe quello bipartitico, ammettente una opposizione che agisca costruttivamente e dinamicamente entro il sistema, non al di fuori di esso o contro di esso (ad esempio, che un partito comunista o rivoluzionario, sempreché osservi certe norme statuarie puramente formali, possa venire considerato «legale» ed essere ammesso in una assemblea nazionale benché il suo programma, dichiarato o tacito, sia il rovesciamento dell’ordine esistente, ciò è un vero assurdo) [2].
A parte la soluzione bipartitica, già adottata con vantaggio nell’Inghilterra monarchica, il sistema rappresentativo che pel suo carattere organico più si armonizzerebbe con la monarchia sarebbe quello corporativo, nel senso più vasto, tradizionale, senza riferimenti al tentativo, che fu fatto dal fascismo con la creazione di una Camera corporativa anziché partitocratica. Forse l’attuale sistema portoghese — meno quello spagnolo — si avvicina all’ordinamento auspicabile.

“A parte la soluzione bipartitica, già adottata con vantaggio nell’Inghilterra monarchica, il sistema rappresentativo che pel suo carattere organico più si armonizzerebbe con la monarchia sarebbe quello corporativo”
Il Loewenstein ha messo in luce l’alternativa che si presenterebbe nel caso di una restaurazione, perché o il sovrano si appoggia alle classi superiori, più inclini a sostenere la monarchia, e allora farebbe il giuoco di coloro che sono pronti ad accusarlo di reazionarismo conservatore; ovvero va incontro alle classi lavoratrici e, in genere, si mette a fare il «re del popolo», e allora si alienerebbe pericolosamente quell’appoggio dell ‘altra parte della nazione.
Ora, un simile bivio presuppone ovviamente il mantenimento, la perpetuazione dello stato di lotta di classe, nei termini dell’ideologia marxista. Ma noi riteniamo che uno dei presupposti per un ordine nuovo, organico e monarchico vada veduto proprio nel superamento di questa divisione antagonistica delle forze nazionali. A tanto dovrebbe mirare appunto la riforma corporativa, attuata la quale l’accennata alternativa di fronte a cui si troverebbe la monarchia restaurata verrebbe in gran parte meno. Anche se all’interno delle corporazioni, o come altro si voglia designare l’organo rappresentativo primario, si facessero valere opposte tendenze, vi è da pensare che la preminenza da dare al principio delle competenze ridurrebbe ampiamente, in tali divergenze, il fattore ideologico.
In un settore divenuto ormai sempre più importante il sistema delle rappresentanze corporative secondo competenze potrebbe presentare un carattere attuale per via dello sviluppo quasi teratologico presentato dall’elemento tecnocratico e, in genere, dall’economia. Si sa delle critiche mosse contro la civiltà tecnologica dei consumi nella società industriale più avanzata; gli aspetti distruttivi che le sono propri sono stati indicati, è stata espressa l’esigenza di porre un freno a processi economici divenuti pressoché indipendenti, come secondo l’imagine del «gigante scatenato» usata da W. Sombart. Ora non è concepibile un freno al sistema, un contenimento, senza l’intervento di un potere superiore, politico. Il compito di frenare e ordinare adeguatamente in base ad una gerarchia più completa di interessi e di valori le forze in movimento nell’anzidetta società, ovviando anche una situazione paradossale verificatasi nei tempi ultimi, quella di uno Stato sempre più forte con una testa sempre più debole, troverebbe evidentemente l’ambiente più favorevole per la sua realizzazione in un vero Stato monarchico.
Istituzionalmente, l’organo potrebbe venire fornito o da un’assemblea unica, che però, a fianco dei rappresentanti delle forze economiche e produttive, comprenda anche rappresentanze della vita spirituale e culturale (come si ebbe, appunto, negli «Stati Generali» e in analoghe assemblee o Diete degli antichi regimi tradizionali monarchici), oppure dal sistema della doppia Camera, di una Camera Alta e di una Camera Bassa, la seconda essendo quella propriamente corporativa, nella prima facendosi valere invece istanze sovraordinate. Si sa che l’ultima «conquista» della democrazia assoluta è stata l’aver ridotto la Camera Alta, ossia il Senato, ad un inutile doppione dell’altra Camera perché anche per essa è stato fatto valere il principio dell’elezione di massa e delle nomine temporanee (almeno per la maggior parte dei componenti di essa). Come ancor nell’Italia di ieri, la definizione della Camera Alta dovrebbe essere, invece, uno dei compiti essenziali della monarchia, sia pure convenientemente assistita, permanendo il carattere formale della nomina dall’alto.

La Camera dei Lords, la “Camera Alta” del Parlamento britannico, con il Trono reale sullo sfondo
Per tal via la Camera Alta resterebbe il corpo politico più vicino alla Corona e sarebbe naturale che in esso il lealismo, la fedeltà e l’impersonalità attiva fossero presenti al più alto grado. Essa dovrebbe avere un potere, una autorità, un prestigio e un significato diversi da quanto è proprio alla Camera Bassa. Custode di valori e di interessi superiori, essa costituirebbe il vero nucleo centrale dello Stato, la «testa» di esso. Andrebbe, pertanto, messo ben in rilievo il suo carattere funzionale attivo in sede di condeterminazione della linea politica, carattere che la differenzierà profondamente da quel che era stato, nell’Italia monarchica post-risorgimentale, il Senato: una assemblea di degne persone, di «alti ingegni», di notabili secondo il censo, però in veste essenzialmente decorativa, senza nessuna vera, vigorosa funzione organica.
Senza fermarsi sui dettagli, è chiaro che un sistema di tal genere supererebbe le aberrazioni della democrazia assoluta e della partitocrazia repubblicana e nella monarchia esso avrebbe la sua naturale integrazione. Qui la monarchia non sarebbe qualcosa di eterogeneo, quasi residuo di un altro mondo, sovrapposto al sistema parlamentare corrente. Pertanto, di rigore, il problema della monarchia rientra in un problema più vasto, quello del ridimensionamento « ri voluzionario » dell’intero Stato moderno.
Ma per le funzioni della monarchia che abbiamo cercato di tratteggiare, per potere, essa, non soltanto «regnare» ma aver anche una parte attiva — più o meno determinante a seconda delle circostanze — nel «governo», è chiaro che sarebbe necessaria una particolare qualificazione del sovrano non solamente sul piano del carattere, secondo la severa educazione tradizionale dei prìncipi, ma anche in fatto di competenza, di conoscenze e di esperienza. Ciò è reso necessario dal carattere sia dell’epoca che dello Stato moderno.
Suggestiva è l’antica concezione estremo-orientale del wei-wu-wei, dell’«agire senza agire» regale, alludente non ad un’azione materiale diretta ma ad una azione «per presenza», come centro e potere quintessenziato. Questo aspetto, pur mantenendo la sua intrinseca validità nei termini dianzi accennati, quando, come nei tempi attuali e probabilmente, ancor più, come in quelli che si preannunciano, tutto è in moto e le forze tendono ad uscire dalla loro òrbita normale, ha bisogno di venire integrato, pur badando bene che per tal via esso non sia menomato. Come abbiamo detto, in altri tempi nel monarca il simbolo poteva anche avere la preminenza sulla persona; dato il clima generale e data la forza di una lunga tradizione e di una legittimità, esso poteva non venire pregiudicato dagli aspetti soltanto umani della persona che nell’uno o nell’altro caso lo incarnava. Se oggi o domani si dovesse venire ad una restaurazione monarchica, ciò non sarebbe più possibile: il rappresentante dovrebbe essere al massimo all’altezza del principio, non per una ostentazione della persona, anzi pel contrario. Dovrebbe avere le qualità anche di un vero capo, di un uomo capace di reggere lo scettro altrimenti che simbolicamente e ritualmente. Una tale qualificazione ai nostri giorni non può essere solamente quella delle epoche delle dinastie guerriere. Le doti di carattere, di coraggio e di energia, pur restando la base essenziale, dovrebbero unirsi a quelle di una mente illuminata e di conoscenze politiche essenziali, adeguate alla struttura complessa di uno Stato moderno e delle forze in atto nella civiltà contemporanea.
Il declino dei regimi tradizionali ha avuto due cause le quali hanno agito solidarmente ancor prima che vi si aggiungesse il clima materialistico della civiltà moderna e della società industriale. Da una parte, in alto vi è stata appunto la crescente incapacità di incarnare completamente il principio specie quando le strutture generali cominciavano a scricchiolare; dall’altra, in basso, si è avuto il venir meno, nei popoli divenuti più o meno «masse», di una determinata sensibilità, di certe capacità di riconoscimento. Pertanto la possibilità di una restaurazione monarchica subisce una duplice ipoteca, ed appare condizionata dalla rimozione di entrambi i fattori negativi. Sarebbero richiesti, da una parte, sovrani che non debbano il loro prestigio soltanto alla loro sopraelevata posizione, al simbolo che li adombra, ma che siano anche capaci di far fronte ad ogni situazione come esponenti di una idea e di un potere superiore. Dall’altra parte, occorrerebbe quel mutamento del livello mentale e morale generale delle masse, di cui non ci siamo stancati di sottolineare la necessità.
Al giorno d’oggi, l’una e l’altra condizione appaiono ipotetiche. Ma se non si deve venire alle conclusioni, essenzialmente negative, da trarre da studi sulla monarchia nello Stato moderno, come quello intrapreso dal Loewenstein; se essa non deve essere considerata unicamente come un istituto che, pallida ombra di quel che la monarchia è stata, è ora quasi interamente privo del suo significato e della sua essenziale ragion d’essere, non vi è altro modo di impostare il problema. Conviene dunque ripetere che il destino della monarchia appare essere, in un certo modo, solidale con quello dell’intera civiltà moderna e più propriamente dipende da quella che potrà essere la soluzione di una crisi la quale, come appare da indizi molteplici, di quella civiltà sta investendo le stesse fondamenta.
Note
[1] In tedesco, con riferimento all’ambito politico-sociale, l’espressione si può tradurre “ceti”, “classi” o “corpi sociali”. Si veda, al riguardo, la concezione organica del cd. “Stato cetuale” (Ständestaat) di Othmar Spann, al quale abbiamo dedicato diversi approfondimenti (N.d.R.).
[2] Sul concetto di “opposizione lealista” che agisce costruttivamente entro il sistema, non al di fuori di esso o contro di esso, il cui esempio principale è dato dalla cd. “His Majesty’s most loyal opposition” britannica, si veda l’articolo di Evola “La Destra e la Tradizione“ (N.d.R.)
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