Nell’articolo “La politica e l’economia” uscito su “Il Conciliatore” nel 1959, da noi pubblicato di recente, trovava spazio un commento di Julius Evola sulle politiche economiche autarchiche del regime fascista, viste dal barone in chiave positiva, come applicazione estensiva dell’etica classica dell’autosovranità individuale al piano economico-nazionale, quale garanzia per lo Stato di autonomia, indipendenza, sana austerità nei confronti del consumismo e dell’iperproduttivismo, foriera di insospettabili aperture verso la sfera spirituale. Torniamo come anticipato su questo tema, riproponendo un articolo risalente al 1938 in cui, appunto, in anni in cui questo principio era materia viva e tangibile e non solo teoria, Evola sviluppava in modo più compiuto la sua analisi sull’autarchia, le sue implicazioni ed i suoi possibili significati “superiori”. Il suo scritto comparve, con testo identico, dapprima sul “Corriere Padano” a marzo, sotto il titolo “Significato spirituale dell’autarchia”, e, poco tempo dopo, a giugno, su “Il Regime Fascista”, sotto il titolo “Eticità dell’autarchia”.
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di Julius Evola
Tratto dal “Corriere Padano”, 1 marzo 1938 (ripubblicato poi con titolo “Eticità dell’autarchia” su “Il Regime Fascista”, 7 giugno 1938)
Accade spesso nell’epoca contemporanea che la forza delle circostanze e di quelle «cause positive», che in molti ambienti sono tenute in così gran conto, vadano a determinare delle situazioni, traenti in apparenza senso solo da esse, ma che ad un occhio più acuto si rivelano facilmente suscettibili di incarnare un valore più alto e così di elevarsi dall’ordine della pura contingenza.
Abbiamo usato con piena intenzione la parola «suscettibile», volendo indicare il carattere di «possibilità», e non di necessità, che è proprio a questa superiore assunzione. Sono molti i casi in cui il destino ci offre qualcosa, senza che noi ce ne accorgiamo e si possa approfittarne. E in molti altri casi, sia della vita individuale che di quella collettiva, la forza delle cose agisce come quel domatore che, pur avendo un vero amore per un nuovo cavallo, è costretto a frustarlo ripetutamente perché questi non sa intendere la sua volontà, compie con diligenza tutte le parti dell’esercizio, ma invariabilmente si arresta sempre dinanzi alla ultima, che con un minimo sforzo, se esso capisse, potrebbe esser facilmente sorpassata.
In un’epoca in cui l’occhio è ipnoticamente legato al piano materiale, al piano della «realtà positiva», casi dolorosi di tal genere si verificano quanto mai frequentemente: si ricevono dei «colpi» da ogni parte, senza che si riesca a capire e a venire al giusto orientamento. Le «lezioni dell’esperienza» servono per accumulare laboriosamente fatti e collegarli variamente in ordine ai nostri scopi pratici, non servono per farci cogliere un senso, non servono, cioè, per svegliarci e determinarci da desti alla giusta reazione.
Il famoso detto «l’economia è il nostro destino» è il triste segno di un’epoca, purtroppo, non ancora tramontata. Palese falsità in ogni periodo di storia e di civiltà normale, questo principio è divenuto vero dopo che l’uomo ha distrutto l’uno dopo l’altro tutti i valori tradizionali e tutti i punti di riferimento superiori che prima presiedevano alle su decisioni e alle sue azioni. L’onnipotenza dell’economia è solo il segno di abdicazione, quasi allo stesso modo che nei fenomeni d’ipnosi la onnipotenza degli automatismi psicofisici ha per presupposto la sospensione delle facoltà coscienti e, in genere, della personalità.
Naturalmente, come formula, quel principio oggi è superato, almeno fra le forze di destra. «Il fascismo – secondo la parola di Mussolini – crede ancora e sempre in atti nei quali nessun motivo economico, lontano, o vicino, agisce», rifiutandosi ad ammettere che le vicende dell’economia, da se sole, bastino a spiegare tutta la storia, con l’esclusione di tutti gli altri fattori. Un’altra nota formula è che il riconoscimento dell’economia va condizionato dal riconoscimento che l’uomo non ne è l’oggetto, bensì il soggetto. Tutto ciò ò evidente, intuitivo, naturale. È la veduta opposta che ha tutti i caratteri di una vera anomalia ideologica.
Ciò, in teoria. In pratica, le cose vanno purtroppo in modo diverso, perché «gli spiriti evocati non li allontanerai così facilmente», come già avvertiva Goethe. E così noi mentre da una parte non possiamo fare a meno di bandire i princìpi della riscossa idealistica, dall’altra ci troviamo spesso costretti a fare i conti con delle necessità pratiche ben precise, tener presenti le quali è un impegno quasi altrettanto sacro, per chiunque non voglia farsi tagliar fuori dalla realtà e travolgere a breve scadenza. In un tale dualismo il lato più tragico è spesso quello del suo degenerare in una vera e propria antinomia: si e costretti talvolta a far tacere momentaneamente o a far aspettare l’idea in nome di congiunture di forze economiche, finanziarie, commerciali richieste dagli interessi più imprescindibili della nazione. Idea e realtà cosi non sempre corrono parallelamente nella politica contemporanea; cosa indifferente, là dove l’idea è un puro simulacro, un mero mito, subordinato a Mammona; cosa grave, invece, dove essa è veramente idea.
Chi esamini gli svolgimenti degli ultimissimi anni può persuadersi che l’autarchia, più che un principio, è la conseguenza necessaria di una determinata situazione generale politico-economica. Per molti, essa costituisce tutt’ora uno scandalo autentico, quel che ci può esser di più irrazionale, la razionalità, da costoro, essendo ravvisata nella «ripartizione del lavoro», da uno scambio con un sufficiente margine di libertà, da una equazione delle dogane. È cosa assurda – si dice – costituire a principio il sistema secondo il quale alcuni popoli sono costretti ad escogitare ogni risorsa e quasi a stringer la cintola per vivere, ed altri sono invece colpiti dalla loro stessa ricchezza. Onde si vede nell’autarchia una «creatura di necessità», determinata dall’intervento violento e irrazionale della politica nell’economia.
La facilità con cui una simile veduta dai non dubbi tratti materialisti può esser capovolta è invero sorprendente. Ci si può infatti chiedere se, dunque, «razionale» e «sensato» sarebbe invece il sistema opposto, il sistema cosiddetto «libero», che null’altro è se non quello nel quale il dato bruto di una certa maggior potenza economica a base, soprattutto, di materie prime, da parte di alcuni popoli, stabilisse le maglie ferree di una supina dipendenza di altri popoli rispetto ai primi, appunto, attraverso la «fatalità» e la «razionalità» del processo economico «normale». Da un punto di vista superiore, esattamente questa sarebbe la più ripugnante delle illogicità; un giogo più bruto di quello di una qualsiasi tirannide personificata.
I popoli che si ricusano di farsi prendere dalle maglie di un simile ingranaggio ed hanno eletto l’autarchia per principio sono popoli destatisi già a qualcosa di spirituale, sono popoli dimostranti di aver sensibilità per valori non puramente riducibili a quelli del ventre e dei suoi annessi: e questo è già il principio di una liberazione. Se è la necessità che li ha condotti a tanto (e nella necessità qui possiamo far rientrare anche tutto ciò che si riferisce alla sola, realistica politica), si deve ben riconoscere che la necessità, in questo caso, ha avuto proprio quella funzione «provvidenziale», cui abbiamo accennato al principio, e che basta un solo passo a che, con una giusta reazione, ci si innalzi ad una coscienza effettivamente spirituale.
Autarchia, etimologicamente, significa «aver il proprio principio in sé stesso». Solo è libero – dicevano gli antichi – chi ha in sé stesso il proprio principio. Sul senso di questa libertà converge su tutta la questione. Le interpretazioni correnti sono note: vertono sul campo finanziario da un lato, militare dall’altro. L’autarchia economica ci garantisce un margine di libertà nei riguardi della politica delle valute, ci permette di regolare e di difendere il nostro danaro. In secondo luogo, l’autarchia economica è una premessa necessaria per la guerra moderna. Senza l’indipendenza economica, la condotta di una guerra moderna è gravemente pregiudicata, essa è ridotta a qualcosa di simile ad un giuoco d’azzardo che, o riesce sul colpo (o a breve scadenza), o conduce alla rovina, l’attrezzatura tecnico-militare di una guerra moderna non potendo esser alimentata da sé stessa.
Due ottime ragioni. Ma si dimentica la terza, che a nostro parere è la più importante. L’autarchia ha il valore di un principio, nel senso più alto del termine, perché è la conditio sine qua non per una libertà delle alleanze e delle inimicizie su base non materialistica (realistica), ma etica. È infatti evidente che per quanto maggiore sarà il grado in cui ad una nazione riuscita di costituirsi come autarchica economicamente, di altrettanto maggiore sarà la sua capacità di seguire una idea, se non perfino un ideale, in tutta la sua politica estera; altrimenti detto, di altrettanto maggiore sarà la sua facoltà di scegliersi l’amico o il nemico indipendentemente dall’opportunità grezza e dalla bruta necessità. Le nazioni autarchiche sarebbero le sole in grado di formare, dunque, degli schieramenti giustificati da veri princìpi, da affinità ideali e spirituali, invece che da una pura congiuntura di interessi. L’una cosa, certo, non esclude l’altra, e la condizione ideale si avrebbe naturalmente quando si avesse un coincidere dei due piani. Nei casi di una non perfetta coincidenza, laddove l’epoca obliqua di materialismo, da cui stiamo strappandoci, era caratterizzata da una cinica, fredda e pronta subordinazione dell’idea all’interesse, l’epoca nuova, se non tradisce sé stessa e se deve davvero meritare di chiamarsi nuova, verrà caratterizzata dal principio opposto, cioè da una decisione attiva delle nazioni, da una decisione dall’alto, sulla base di quelle possibilità di indipendenza e di mobilità, che procedono dal massimo grado di autarchia sensatamente realizzabile in ciascuna di esse.
Il giorno in cui si giungerà a tanto, il lato positivo dell’autarchia apparirà a pieno. Se questo principio in un primo tempo ci è stato imposto dall’esterno ed ha richiesto da noi sforzo e disciplina, il nuovo atteggiamento ci permetterà di giudicare la cosa da un ben diverso punto di vista: la coercizione da parte della «storia» sarà compresa come l’unico mezzo che era a disposizione per dare ad un istinto superiore non ancora consapevole di sé un primo senso della giusta direzione.
Nell’immagine in evidenza, l’ingresso della Mostra Autarchica del Minerale Italiano al Circo Massimo, Roma, 1938.
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