Simboli della degenerescenza moderna: il Futurismo

di Julius Evola

(tratto da La Torre, numero 6, 15 aprile 1930)

Noi qui non ci occupiamo del futurismo, che in quanto in esso si esprimono in modo caratteristico alcuni aspetti fondamentali di quella degenerescenza dello spirito nel mondo moderno, che abbiamo già avuto modo di precisare negli articoli precedenti. A questa stregua, forse pochi «movimenti» moderni sono così ricchi di significato come il futurismo. Oggi si parla della «liquidazione» del futurismo, e si considera l’assunzione di F. T. Marinetti alla Accademia d’Italia come la pietra sepolcrale chiusasi sul suo capo. Purtroppo, nulla di questo è vero. Il futurismo è una cosa terribilmente presente e in atto. Beninteso, non si tratta di ciò che il futurismo ha fatto negativamente come movimento rivoluzionario e innovatore, né di ciò che esso ha fatto positivamente cercando di porre le basi di una nuova arte. Tutto ciò ha avuto una ben scarsa efficacia, non diciamo in Europa, ma nella stessa Italia, ingombra quanto prima di marcio retorismo, pronta ad accogliere persino le scemenze di «strapaese», futurista unicamente nello spirito di certi «fascisti» di scarto che all’idea sostituiscono il pugno, al senso critico il proclama, alla cultura lo sport, alla superiorità classica e aristocratica la bravata e il lazzo giovanile.

L’attualità del futurismo si trova in un altro piano. Essa sta in ciò che nel futurismo riflette ed esprime tipicamente il movimento dello spirito che tradendo se stesso s’immedesima con la forza bruta del divenire e della materia, mutando il senso di sé con l’ebbrezza e la vertigine che ritrae da questa sua perdita.

Flilippo Marinetti, “Parole in libertà” (1915)

In uno dei suoi primi «manifesti», il futurismo dichiarò di voler «distruggere l’Io nella letteratura, cioè la psicologia»[1]. In realtà, tale desiderio di distruzione nel futurismo come programma non si limita all’Io letterario, investe invece in pieno la compagine più intima del principio spirituale. Il futurismo come principio fomenta e glorifica la disintegrazione della personalità nel senso più vasto, il collasso definitivo nelle forze prepersonali, negli stadi istintivi infracoscienti nei quali il limite fra l’umano e ciò che sta sotto l’uomo finisce per l’essere rimosso. Esso tende a che ogni facoltà umana si strappi non pure dai principi spirituali, ma anche da quelli razionali e volontari di cui più non sopportano la tensione, e si abbandoni a un misticismo convulso e frenetico della materia, della sensualità, del movimento. Questo è il vero volto del futurismo, di questa «magnifica creatura del genio latino», secondo l’espressione di Marinetti. Le linee di un tale volto sono date rigorosamente dalle stesse espressioni dei suoi «manifesti».

 In realtà, si tratta di una riduzione alle estreme conseguenze del movimento bergsoniano (esponente, a sua volta, di un processo più vasto) con la sua «religione della vita», con la sua esaltazione dell’istinto e dell’intuizione di contro all’intelligenza e alla volontà. È la conclusione del divenirismo moderno, il quale abbatte definitivamente il polo dell’essere, il senso del trascendente, dell’eterno, dell’immutabile, della potenza sovrannaturale dell’uomo, e ne scioglie la coscienza nella condizione temporale, fino a contrarla nella vita demonica nell’attimo e nello scatto istantaneo. Come in Bergson, così nel futurismo l’odio per la ragione è lontano come tutto dall’esprimere un impulso al soprarazionale, a quell’«intuizione intellettuale», a quell’atto puro della mente disincarnata che il mondo tradizionale conobbe e statuì come via al sopramondo. Di quell’odio è invece il subrazionale e il prepersonale a beneficiarne: la voce della materia insorgente dal profondo come forza distruttrice della personalità. «Distruggere l’Io, sostituirlo finalmente con la materia di cui bisogna raggiungere l’essenza a colpi di intuizione. Soppiantare la psicologia dell’uomo, ormai esaurita, con l’ossessione lirica della materia», per «lirismo» intendendo «l’ubriacarsi della vita e il farla ubriacare di noi stessi» (pp. 19, 20, 40): queste sono espressioni testuali dei «manifesti» del futurismo. «L’uomo tende a sporcare con la sua gioia nuova e con il suo dolore decrepito la materia che non è né giovane né vecchia, ma che possiede una mirabile continuità d’impeto verso un maggior ardore, un maggior movimento, un maggior sparpagliamento. La materia non è né triste né lieta. Essa ha per essenza il coraggio, la volontà e la forza assoluta» (p. 22).

Ora, questa tendenza verso il non-umano, contaminazione di qualcosa che in un Nietzsche poteva esser grande, nel futurismo si capovolge nel vuoto: essa non sbocca nel «superuomo»: sbocca nella macchina, nell’uomo meccanizzato, animalizzato e americanizzato a un tempo. La «forza assoluta» di cui si tratta non è quella che domina assolutamente la materia, ma quella della materia scatenata e vibrante; il «coraggio» e la «volontà» non sono quelle che testimoniano qualcosa che nell’uomo va di là dell’uomo, ma sono invece quelle della «bella bestia», dell’uomo di sport moderno, di tutto ciò che si trae da quella «moltiplicazione e dallo sviluppo illimitato delle ambizioni e dei desideri umani», che è uno dei compiti consapevoli propostisi dall’ascesi futurista (p. 37), la quale con piena coerenza proclama altresì: «Distruggere il sentimento dell’al di là, accrescere il valore dell’individuo che ormai vuol vivere la propria vita» (ibid.).

Tutto ciò è sintomatico.

Umberto Boccioni, “Forme uniche della continuità nello spazio” (1913)

È in tal senso che nel futurismo sono ravvisabili uno per uno i gradi progressivi della caduta, che noi già precisammo in sede generale per l’«umanismo moderno»(n. 3 e 4). Il valore simbolico dell’esperienza futuristica sta nel fatto di dare una certa coscienza alle forze che dopo aver distrutte le possibilità spirituali della coscienza umana (fase «umanistica»), si volgono a distruggere questa stessa coscienza, aprendo vie a modi di essere di cui sono simboli i regni della natura inferiori all’uomo. L’aspetto più significativo del futurismo sta appunto là dove esso tende a portar di là non pure dall’uomo come persona (come volontà, coscienza, intelligenza) proclamando il primato di facoltà animali e incoscienti come l’istinto, l’impulso del sesso, lo slancio fisico, i processi incontrollabili di una intuizione confusa, ma inoltre a portar di là dallo stesso uomo animalizzato, sboccando dal regno animale in quello meccanico. Dalla religione della «vita», esso passa alla religione della «macchina»: «Après le règne animal, voici le règne mécanique qui commence!» (p. 25).

Al superamento spirituale del tempo, che si ottiene realizzando la coscienza dell’eternità, sta di contro, nel futurismo, il suo superamento meccanico e illusorio, dato dall’istantaneità, dalla simultaneità, dalla velocità assoluta. Chi realizza in se stesso ciò che non appartiene più al tempo, può comprendere in un sol tratto quel che nel divenire si presenta sotto la condizione della successione: allo stesso modo che chi lascia la pianura e ascende sul sommo di una torre, può abbracciare in un solo sguardo, e comprendere come unità, le cose singole che, trovandosi fra di esse, egli non aveva potuto vedere che l’una dopo l’altra. Ma chi, con un movimento opposto, si immerge invece nel divenire, per illudersi di contrarlo in un possesso, non può conoscere che l’orgasmo, la vertigine, l’accelerazione convulsiva della velocità, l’eccesso pandemico della sensazione della forza. Ecco il senso del dinamismo futurista, che bandisce appunto l’«accelerazione frenetica della vita», l’«equilibrismo sulla corda tesa della velocità», l’intensificazione di ogni sensazione e di ogni movimento nella sintesi, nel riassunto, nel «Tutto, presto presto presto, in un attimo». Questa precipitazione che contrae il ritmo, che disorganizza la durata, che distrugge l’intervallo, sbocca appunto nell’istantaneità e nella simultaneità. Dinamismo, istantaneismo, simultaneità sono tre elementi solidali nella logica del futurismo, i quali procedono dall’illusione moderna di cercar dentro il divenire quel possesso della vita, che il tempo sottrae in una fuga perenne dei suoi singoli momenti, e che non si può conseguire che superando internamente la condizione del divenire. Ora, dal mondo dell’istantaneità a quello della macchina, in sede del significato non v’è che un passo.

Fortunato Depero, Motociclista, solido in velocità (1923)

Il rapporto è analogo. Quando l’Io è condotto al livello delle forze istantanee della materia, o sopravviene la disorganizzazione assoluta nella vita-attimo, ovvero s’impone il passaggio dalla legge di organizzazione vivente data dalla semplicità dell’anima dominatrice, alla legge inorganica e automatica delle creature meccaniche. Fa dunque rigorosamente parte della logica interna del futurismo l’esaltazione dell’«imitazione della macchina» e dell’«uomo meccanizzato», la richiesta di «una fusione perfetta dell’istinto resosi assolutamente coestensivo alla materia, con le parti, le forze, le leggi di un motore», infine, il mito dell’«uomo meccanico dalle parti sostituibili che libererà dalla stessa idea della morte, da questa suprema definizione dell’intelligenza logica» (p. 26). Dallo sprofondamento nelle forze della materia e del puro divenire, l’uomo, spento allo spirito, risorge come macchina, in un pauroso «splendore geometrico e meccanico». Tutto ciò che lascia vedere la «decomposizione e la ricomposizione di una cosa senza l’intervento dell’uomo» (p. 21) cioè di una forza spirituale (come per esempio nel cinematografo) diviene il centro dell’interesse: la comprensione del «movimento della materia fuor dalle leggi dell’intelligenza» (ibid.) è la direzione di questo aspetto del futurismo, il quale nell’indicar la via della disintegrazione totale dell’unità non pure spirituale, ma perfino umana (superamento dell’«uomo psicologico», dell’«io letterario», distruzione dell’intelligenza, ecc.) non fa che esprimere le forme-limite dei processi generali messi in moto dalla stessa civiltà moderna.

Difatti, è molto evidente che qui quella «splendida creatura del genio latino», che è il futurismo, sia pure nella caricatura del paradosso riflette null’altro che l’ideale della «cultura» bolscevica e di quella americana, concordi nella volontà di «razionalizzare» e «meccanizzare» tutto ciò che nelle antiche tradizioni conservava il privilegio della qualità e dell’attività libera della personalità, di distruggere il «male dell’Io», ovvero il subordinarlo a un taylorismo spirituale. Peraltro, il futurismo non ha veli nella sua nostalgia per la vita frenetica, meccanizzata, istantanea, reclamistica, clownesca delle metropoli americane; come, d’altra parte, dal punto di vista specialmente dell’arte, si può dire che la Russia sovietica è la terra che più ha saputo utilizzare praticamente il messaggio futurista. A conciliare su questa base la ratifica che da noi nella persona di F. T. Marinetti ha avuto il futurismo, con i conati di una difesa della «tradizione», impostata sulle tesi anti-americanistiche e anti-sovietiche, che parimenti fanno capolino in Italia, è una cosa di cui non ci sentiamo capaci, sì che in ciò siamo costretti a vedere una delle tante incongruenze proprie a una certa corrente, che peraltro tanto bene ha saputo secondare il precetto futurista dell’«ottimismo aggressivo che si ottiene con la cultura fisica e lo sport» (p. 54).

Umberto Boccioni, “La città che sale” (1910-11)

Se ci fosse dato di scendere al piano delle applicazioni estetiche del futurismo ci sarebbe facile rilevarne la coerenza con gli stessi significati di decadenza e di regressione della spiritualità, che abbiamo già accertati. Ci limitiamo ad affermare che, a differenza dal cubismo, dall’espressionismo, dal dadaismo, tendenze che, piaccia o non piaccia a Marinetti (il quale ama atteggiarsi a padre di ogni scuola moderna) non hanno nulla a spartire col futurismo, il futurismo in arte è un puro sensualismo, uno sfaldamento della tendenza «impressionistica», contrario a ogni spiritualità. Fra tutti, il principio futurista della «deformazione pittorica» è pieno di significato. In ogni sana tradizione, l’arte non è riproduzione fotografica di oggetti (come, con una incomprensione caratteristica, lo pretese la «critica» futurista) ma è una trasfigurazione, che ne rende simbolica l’oggettività, rimandando dall’oggetto a un significato spirituale, il quale come tale non è e non può essere suscettibile di alcuna espressione o figurazione diretta. Nell’arte futurista la tendenza a trascendere l’oggetto, si riduce invece a una irruzione di sensazioni incomposte, le quali si materializzano nella deformazione degli oggetti e delle figure: quasi come ciò può avvenire nella vertigine o nell’allucinazione di un ebbro. In altre parole: invece di creare nella forma intatta ed esteriore dell’oggetto l’adombramento di ciò che non ha forma e che è spirito, e che solo con l’occhio interiore può esser visto, il pittore futurista evoca l’antiforma (nel senso di Tillich si potrebbe dire: l’elemento demonico, che ogni forma domina per potersi realizzare), e con essa mediante deformazioni, «simultaneità», compenetrazioni, ecc. tenta paradossalmente e materialisticamente di porre dinanzi all’occhio fisico qualcosa che non è fisico, per quanto non vada oltre l’ordine delle sensazioni e delle emozioni dell’uomo privo di centro e sprofondato nelle energie istantanee e irrazionali della «vita».

Questo punto ci è sembrato meritevole di segnalazione. Ma troppo lungo sarebbe il discorso, per mostrare tutto ciò che nei conati e negli aborti dell’arte futurista tradisce lo stesso spirito di abbandono a forze irrazionali e istintive, che, travolto il centro calmo e dominatore e la chiara visione del principio spirituale, godono del caos delle sensazioni istantanee e accelerate che fanno violenza alle forme e prestano una vita psichica demonica agli elementi della materia e del subcosciente.

Giacomo balla sbandieramento patriottismo nazionalismo futurismo

Giacomo Balla, “Sbandieramento” (1915)

Il futurismo, però, non sarebbe completo come simbolo della degenerescenza moderna, se non ne riflettesse anche l’aspetto, che si connette alla prepotenza delle passioni politiche. Se, come abbiamo mostrato (n. 2), una delle vie attraverso le quali nel mondo moderno si compie la disintegrazione della personalità è costituita dalla potenza che su essa ha acquistata la passione politica, non era possibile che il futurismo non facesse della politica, non si compenetrasse con l’esaltazione del patriottismo e del nazionalismo, beninteso, in quel senso moderno e plebeo, che nulla ha a che fare con gli ideali dell’imperialità e dell’aristocrazia spirituale che furono retaggio della nostra migliore e più vera tradizione. L’arte e la politica, la dottrina e lo sciovinismo nei futuristi si son sempre trovati confusi nella promiscuità la più sinistra, associandosi d’altra parte al bluff all’americana, alla boutade, alla smania per il record e per la cosa «originale», alla chiassata, all’ode per la pedata e per il pugno, alla mistica della spiritualità sportiva e del successo: il tutto, in un regolare servizio d’esportazione, a maggior gloria del «genio latino». Si deve aggiungere che nell’«interventismo» dei futuristi, attraverso l’istanza antitedesca, si può ravvisare qualcosa di più significativo che non il semplice «nazionalismo»: si può ravvisare, dietro o insieme a quel pretesto, una rivolta contro lo spirito d’ordine e di gerarchia, contro gli ideali di «cultura», di fredda volontà e di impero che la razza germanica aveva nutrito. Per quanto forse ben scarsamente se ne resero conto, nella guerra i futuristi combatterono la stessa lotta che essi avevano proclamato in sede di «movimento» artistico in nome dell’istinto, dell’empito incomposto, della vita frenetica e istantanea, del dinamismo e dell’intuizionismo, contro i principi superiori della personalità.

Il bizzarro è che con tutto questo i futuristi non dubitano di rappresentare l’«orgoglio italiano», di esprimere il diritto della «genialità latina». Inoltre, essi pensano di essere l’«anima della nuova generazione». Forse non v’è che quest’ultima cosa ad avere l’apparenza della verità: ché la «nuova generazione» è, in verità, la «generazione ultima», quella dei disfatti, dei relitti della grande ondata della decadenza occidentale. Sarebbe solo desiderabile che lo sguardo fosse più chiaro, che i compromessi fossero tolti di mezzo: che questa «nuova generazione» riconoscesse le terre che sono congeniali alla sua aspirazione più di quelle che, sia pure al titolo di un «convitato di pietra», conservano le vestigia e le nostalgie della nostra tradizione spirituale. Ma è che, forse, in seno all’«anima slava» o alla barbarie dinamo-meccanica americana, non vi sarebbe più posto da dare alla vanità di essere di un futuro, di essere «futuristi».

Note

[1] F. T. Marinetti, Les Mots en liberté futuristes, Milano 1919, p. 19.


A proposito di...


'Simboli della degenerescenza moderna: il Futurismo' has no comments

Vuoi essere il primo a commentare questo articolo?

Vuoi condividere i tuoi pensieri?

Il tuo indirizzo email non verrà divulgato.

"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

Tutto quanto pubblicato in questo sito può essere liberamente replicato e divulgato, purché non a scopi commerciali, e purché sia sempre citata la fonte - RigenerAzione Evola