Speciale Guénon 1951-2021 – La “civiltà degli agitati”

Come preannunciato più volte, RigenerAzione Evola inizia, a partire da oggi, un corposo speciale dedicato a René Guénon, per celebrare a nostro modo i settant’anni dalla sua dipartita terrena. Il maestro di Blois, come i nostri lettori ben sanno, è ospitato frequentemente e sempre con grande piacere sul nostro portale. Quest’anno, abbiamo avuto modo di pubblicare suoi scritti già due volte: a gennaio, in occasione dell’Epifania, con un estratto da “Il Re del Mondo”, sulle tre funzioni supreme ed il simbolismo dei Re Magi, ed a febbraio, con la riproposizione della prima parte del primo capitolo de “Simboli della scienza sacra”, sotto l’intitolazione “Modernità, religione, simbolo”, a supporto di alcune riflessioni di Evola sulla decadenza del cattolicesimo sotto i colpi del modernismo.

René Guénon in un’opera di Antonio Pires

Peraltro, già nel 2018, tra aprile e luglio, dedicammo uno speciale a Guénon, più precisamente in relazione ai suoi rapporti con Julius Evola. L’approfondimento prese le mosse dal Convegno di Brescia del 12 maggio di quell’anno (“Evola-Guénon: incontro o scontro?”), con la pubblicazione delle interviste e  degli interventi dei relatori,  per poi proseguire con altri articoli, di cui ricordiamo i temi: 1) lo scontro in punta di penna tra i due giganti della Tradizione tra la fine del 1925 e la prima metà del 1926 sulle pagine del quindicinale “L’idealismo realistico”, che partì dalla recensione ipercritica da parte del giovane Evola nei confronti de “L’uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta” di Guénon; 2) la stima e la collaborazione reciproca negli Anni Trenta; 3) l’introduzione di Evola alla prima edizione italiana di “Crisi del mondo moderno” del 1937; 4) la seconda recensione “riveduta e corretta”  del Vedanta di Guénon da parte di Evola nel 1938; 5) la prefazione di Evola a “Considerazioni sull’iniziazione“, con un nostro approfondimento sulla misteriosa vicenda editoriale connessa alla versione italiana di questa raccolta di scritti guénoniani, soprattutto con riferimento proprio allo scritto di Evola; 6) infine, un articolo di Evola in ricordo di Guénon, dopo la sua scomparsa.

Ora, riprendiamo il filo con una sorta di seconda parte di quello speciale, che trae lo spunto dalla ricorrenza di cui abbiamo parlato. Partiamo, oggi, con un piccolo “scoop”, vale a dire quello che sembrerebbe essere un inedito di René Guénon (ricordiamo che, quando parliamo di inediti, lo facciamo sempre in senso relativo, cioè con riferimento a scritti che, dopo la pubblicazione originaria, non sono stati più ripubblicati): un articolo, intitolato “Nuovi appunti sulla ‘civiltà degli agitati’ “, che rientra nel lotto degli scritti del maestro di Blois (spesso firmati con lo pseudonimo di Ignitus) per la rubrica “Diorama Filosofico” curata da Evola su “Regime Fascista”, di cui abbiamo parlato molte volte. Questo articolo, apparso sulle colonne della terza pagina del giornale di Roberto Farinacci nel settembre 1934, non risulta presente nella celebre antologia di questi scritti di Guénon, “Precisazioni Necessarie – I saggi del Diorama“, a cura delle Edizioni di Ar, e, pertanto, possiamo considerarlo un piccolo inedito: un breve ma incisivo scritto del Maestro, in cui si si svolgono delle riflessioni sulla frenesia dell’attivismo fine a sé stesso, dell’azione ridotta a mera agitazione (sempre ricordando, comunque, che l’angolo visuale di Guénon è quello di un brahmano, che non ha mai riconosciuto all’azione in quanto tale – sia pure quella pura, impersonale, svincolata dal frenetico attivismo faustiano – la capacità di innalzare in modo compiuto l’uomo verso approdi spiritualmente sovraordinati), e sulla demonia del moralismo, quale espressione precipua del sentimentalismo moderno, e dei suoi nefasti effetti in tutti gli ambiti in cui trova diffusione, da quello conoscitivo-scientifico a quello filosofico e, soprattutto, a quello religioso, tramite l’azione perniciosa, nel contesto cristiano, del Protestantesimo in tutte le sue forme.

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di René Guénon (“Ignitus”)

Tratto da “Regime Fascista”, rubrica “Diorama Filosofico” – 4 settembre 1934

«Vita» e «azione» — nell’aspetto in cui l’una e l’altra son divenuti miti e segni caratteristici del mondo moderno — sono elementi strettamente solidali: il dominio dell’una è anche quello dell’altra, ed è in questo dominio limitato che sta chiusa tutta la civiltà occidentale, oggi più che mai.

Agire per agire

Qui, noi non possiamo pensare ad esporre come gli Orientali e le dottrine tradizionali in genere considerano la limitazione inerente all’azione e le sue conseguenze; come a tal riguardo essi oppongano la «conoscenza» all’azione, poiché tali considerazioni ci condurrebbero troppo lontano; la teoria estremo-orientale del «non agire» che trova un certo riscontro con quella aristotelica e scolastica del «motore immobile», la teoria indù della «liberazione», e così via, sono cose inaccessibili alla mentalità moderna, per la quale è inconcepibile che si possa pensare a liberarsi dall’azione e, ancor più, che si possa effettivamente riuscirvi.

Inoltre l’azione stessa non vien comunemente considerata che nelle sue forme più esteriori, corrispondenti propriamente al movimento fisico: donde quel crescente bisogno di velocità, quella trepidazione febbrile che caratterizzano talmente la vita contemporanea. Agire per il piacere d’agire, ciò solo può chiamarsi agitazione, poiché nella stessa azione vi son gradi e distinzioni. E solo troppo facile sarebbe, mostrare quanto tutto ciò sia incompatibile con la riflessione e con la concentrazione, strumenti essenziali di ogni vera conoscenza. E’ veramente un trionfo della dispersione nell’esteriorizzazione più completa che si possa immaginare. E’ la rovina dei resti d’intellettualità che ancora potevano sussistere, a meno che non si giunga a reagire tempestivamente contro tali tendenze funeste.

Del resto, per il fatto stesso che al dominio dell’azione ineriscono possibilità, malgrado ogni apparenza, assai ristrette, non è possibile che uno sviluppo in tal senso anormale si continui indefinitamente e per la forza stessa delle cose un mutamento di direzione presto o tardi si imporrà. Importante è che le correnti che oggi si intendono a sviluppare un’opera ricostruttrice si rendano pienamente conto di ciò, tanto da poter assumere coscientemente e a giusto tempo la direzione di forze nuove di là da un momento di crisi che potrà esser più o meno ritardato, ma che fatalmente dovrà presentarsi – nella vantata «civiltà dell’azione».

Il moralismo

Avendo già detto del sentimentalismo come di una delle forme principali della regressione intellettuale dell’uomo occidentale moderno, qui si può accennare che uno dei sintomi più notevoli della preponderanza assunta appunto dal sentimentalismo è ciò che noi chiamiamo moralismo, vale a dire la spiccata tendenza a tutto ricondurre a preoccupazioni di ordine morale, o, almeno, a subordinarvi il resto e specialmente ciò che appare di dominio dell’intelligenza.

La morale, in sé stessa è cosa essenzialmente sentimentale: rappresenta un punto di vista quanto mai relativo e contingente. Ma il «moralismo» propriamente detto é una esagerazione di tale punto di vista prodottasi solo in un periodo assai recente. Quale sia la base che le si dà e l’importanza che le si attribuisce, la morale non è e non può essere che una regola d’azione. Per degli uomini che non si interessano più a nulla, fuor che all’azione, è però evidente che essa deve assumere una parte capitale, ed essi vi si riferiscono tanto più volentieri, per il fatto che considerazioni di tale ordine, in un periodo di decadenza intellettuale, posson dare un’illusione di pensiero. Ciò spiega la nascita del «moralismo».

Un fenomeno analogo si era già prodotto verso la fine della civiltà greca ma senza raggiungere, a quanto sembra, le proporzioni assunte ai nostri giorni. Infatti, a partir da Kant, quasi tutta la filosofia moderna è compenetrata di «moralismo», il che equivale a dire che essa dà ad una «patica», considerata d’altronde da un punto di vista speciale, del tutto umano e profano, il primato rispetto alla speculazione; e siffatta tendenza giunge a pieno sviluppo con quelle filosofie della vita e dell’azione, di cui abbiamo parlato nei precedenti scritti.

D’altronde, noi abbiamo segnalata l’ossessione che fin sui materialisti più autentici esercita ciò che si chiama la «morale scientifica», la quale rappresenta esattamente la stessa tendenza. Che la si dica scientifica o filosofica a seconda dei gusti, si tratta sempre di una espressione del sentimentalismo, le cui variazioni sono appena apprezzabili. Infatti è curioso che le concezioni morali in un certo ambiente sociale si rassomigliano tutte straordinariamente, pur pretendendo di giustificarsi con considerazioni diverse e talvolta perfino opposte. Ciò mostra bene il carattere artificiale delle teorie con le quali ciascuno si sforza di fondare delle regole pratiche che son sempre quelle che si osservano comunemente intorno a lui. Insomma, queste teorie rappresentano semplicemente delle preferenze particolari di coloro che le formulano o adottano e, spesso, un interesse di partito non vi è per nulla estraneo. Ciò é già provato dal modo in cui la «morale laica» (poco importa se scientifica ovvero filosofica) viene opposta alla morale religiosa. Del resto, il punto di vista morale avendo una ragion d’essere esclusivamente sociale, l’intrusione della politica in tale dominio non è cosa che possa stupire oltre misura. Ciò può urtar meno che non l’utilizzazione che per fini simili si fa di pretese teorie scientifiche. Ma, dopo tutto, lo stesso spirito «scientifico» non è stato forse creato per servire agli interessi di una certa politica materialistica, antitradizionalista e antiaristocratica? Per prendere un esempio, la cosidetta «scienza delle religioni» sembra assai più uno strumento di polemica che non una scienza seria, rientrando in uno dei casi già accennati, ove il razionalismo è sopratutto una maschera di attitudini sentimentali o passionali.

Pseudo-religione

Non è solo fra gli «scientisti» e i filosofi che si può rilevare l’invadenza del «moralismo». A tal riguardo, bisogna anche notare la degenescenza dell’idea religiosa quale la si constata nelle innumerevoli sette sorte dal protestantesimo. Tali forme son le sole ad esser specificamente moderne e son caratterizzate da una riduzione progressiva dell’elemento dottrinale a profitto dell’elemento morale o sentimentale. Questo fenomeno è un caso particolare della menomazione generale dell’intellettualità, e non è per una coincidenza fortuita che l’epoca della Riforma è la stessa di quella della Rinascenza, cioè precisamente dell’inizio del periodo moderno.

In certe diramazioni del protestantesimo attuale la dottrina ha finito col dissolvervi interamente e poiché parallelamente il culto si è ridotto press’a poco a nulla, così l’elemento morale alla fine è il solo a sussistervi. Il «protestantesimo liberale» non è più che un «moralismo» ad etichetta religiosa, epperò, più che una religione, una specie di idea filosofica, i cui rappresentanti, del resto, se l’intendono benissimo con i partigiani della «morale laica», detta anche «indipendente».

Per designare cose di tal genere noi impieghiamo volentieri la parola «pseudo-religione»; e noi applichiamo anche questo nome a tutte le sette «neo-spiritualiste» che nascono e prosperano soprattutto nei paesi protestanti, perché esse procedono dalle stesse tendenze e dallo stesso stato d’animo. Per via della soppressione dell’elemento intellettuale (o per via della sua assenza, se si tratta di creazioni nuove), alla religione si sostituisce la religiosità, cioè una semplice aspirazione sentimentale più o meno vaga e inconsistente; e questa religiosità sta alla religione press’a poco come l’ombra sta al corpo. Qui si può riconoscere l’«esperienza religiosa» di William James (che si complica con l’appello alla «subcoscienza») e anche la «vita interiore» nel senso ad essa data dai modernisti, poiché il modernismo non fu altro che un tentativo di introdurre nello stesso cattolicesimo la mentalità di cut stiamo dicendo: tentativo che si spezzò contro la forza dello spirito tradizionale di cui, almeno virtualmente, il cattolicesimo in Occidente è apparentemente l’ultimo rifugio, se si prescinde da eccezioni individuali che posson sempre esistere al di fuori di ogni organizzazione.

L’equivoco dei tradizionalismo

E’ fra i popoli anglosassoni che il «moralismo» infierisce col massimo d’intensità, ed è parimenti là che il gusto dell’azione si afferma nelle forme più estreme e brutali: queste due cose son dunque ben legate l’una all’altra, come l’abbiamo detto. Del resto, tali popoli, per via della loro mentalità eminentemente pratica e della loro incapacità di una conoscenza speculativa, sono quelli che incarnano al più alto grado lo spirito della civiltà moderna. Noi rileviamo che é fra di essi che hanno preso nascita quasi tutte le idee democratiche e umanitarie. E vi è una ironia singolare nella concezione corrente che rappresenta gli Inglesi come un popolo essenzialmente attaccato alla tradizione, mediante una volgare confusione fra ciò che é tradizione e ciò che è semplicemente costume. La facilità con la quale si abusa di certe parole è davvero straordinaria. Vi è chi è giunto a chiamar «tradizioni» degli usi popolari o anche delle abitudini di origine recentissima, senza importanza e senza significato. Quanto a noi, ci rifiutiamo a dare questo nome a ciò che è solo un rispetto più o meno meccanico per certe forme esteriori che talvolta non son più che superstizioni, nel senso etimologico del termine. La vera tradizione è nello spirito di un popolo, di una razza o di una civiltà, ed ha delle ragioni d’essere altrimenti profonde, delle ragioni d’essere che stan di là da sentimentalismo, di là da razionalismo, di là da scientismo, di là, insomma, da tutti i miti e gli idoli e le nuove e autentiche superstizioni che caratterizzano la civiltà moderna e gli orgogli a questa proprii. Tutto ciò che ci siamo sforzati di mettere in chiaro nella serie dei nostri articoli tende appunto a trasmettere questo senso di trascendenza della vera tradizionalità: senso che, per essere realizzato, richiede ben altro che non formule ideologiche e parole d’ordine politiche, richiede una specie di interiore ascesi di cui, per dirla francamente, ben pochi oggi son capaci.

Ma questi pochi sono appunto coloro che potrebbero guidare le forze nuove, le forze, con l’affermarsi delle quali il ciclo del «mondo moderno» già avviantesi al suo crepuscolo sarà definitivamente chiuso.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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