Spengler nell’analisi di Evola

Proseguiamo l’approfondimento dedicato ad Oswald Spengler, che abbiamo introdotto qualche giorno fa parlando della recente nuova traduzione “ideologizzata” de “Il tramonto dell’Occidente“. Passiamo la parola direttamente a Julius Evola, proponendo un articolo che il barone dedicò allo scrittore tedesco, pubblicato sulle colonne de “La Vita Italiana”, un mese dopo l’improvvisa scomparsa di Spengler, avvenuta nel maggio 1936. Evola, con riferimento a “Rivolta contro il mondo moderno”, era stato definito da Gottfried Benn proprio lo “Spengler italiano”: un’etichetta che il barone mal digerì, come peraltro ebbe modo di dichiarare in un’intervista del 1971 da noi ripubblicata qualche anno fa. In questo articolo, per la prima volta Evola analizzava ufficialmente il pensiero dello scrittore tedesco, mettendone in evidenza pregi e difetti, da un’ottica rigorosamente Tradizionale. Sostanzialmente, il barone espresse un giudizio positivo sulla pars destruens della visione di Spengler, che abbatteva il mito evoluzionistico e progressistico, poneva in evidenza in modo appropriato le caratteristiche tipiche della decadenza delle “civiltà crepuscolari”, dominate dalla “civilizzazione”, e poneva un processo ciclico alla base della storia di popoli e civiltà. Ma, come leggerete, Evola sottolineò come lo scrittore tedesco non seppe andare oltre, non scorgendo la natura metafisica delle leggi cicliche delle civiltà, fermandosi al dato naturalistico e deterministico, concependo  il mondo e la storia come un organismo vivente, applicandone le leggi ed i richiami, con evidenti richiami a Goethe e ad una visione immanentistica, vitalistica, dominata da un’incessante metamorfosi della forma, in cui lo spirito faustiano era visto come motore della civiltà occidentale, anzichè come causa prima della sua decadenza.

C’è spazio anche per un’analisi dell’opera di Spengler Jahre der Entscheidung, “Gli Anni della decisione”, che era stata tradotta in italiano  nel 1934 dal professor Beonio-Brocchieri su invito di Mussolini, che aveva letto in tedesco il libro e l’aveva recensito in prima persona con favore. Ricordiamo, infatti, che Der Untergand des Abenlandes sarebbe stato tradotto dallo stesso Evola ben vent’anni dopo l’articolo che vi proponiamo oggi, e su tutto questo torneremo. Ma ora lasciamo la parola al barone, dopo aver ricordato, per completezza filologica, che, sempre nel giugno 1936, stavolta sul “Corriere Padano”, Evola avrebbe ancora citato Spengler, ma in modo più indiretto, scrivendo a proposito della decadenza dell’Inghilterra (“Spengler e l’Inghilterra”), articolo che eventualmente avremo modo di proporre in un altro contesto.

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di Julius Evola

Tratto da “Vita Italiana”, giugno 1936

Chi, ora, alla sua morte, volesse fare un bilancio coscienzioso dell’attività di Oswald Spengler e esaminasse il significato che questa sua attività ha avuto nell’epoca contemporanea, dovrebbe trovarsi piuttosto perplesso.

Se questo imbarazzo non viene avvertito, e se tanto da noi che in Germania in occasione della morte dello Spengler è già uscita una serie di articoli pervasi dalla solita sicumera dei giornalisti militanti, la causa di ciò è da attribuirsi al fatto che, in fondo, nessuno, o quasi nessuno, dispone oggi dei punti di vista atti a far scorgere oggettivamente il positivo e il negativo delle posizioni dello Spengler mediante un riferimento di esse ad un saldo sistema di principii. Di fronte allo Spengler si è presa e si prende, del resto, quella attitudine, tanto nefasta quanto, purtroppo, universalmente diffusa nei tempi moderni, che consiste nel considerare ogni sistema di idee alla stregua di una «creazione personale», di una costruzione filosofica dovuta alla genialità, più o meno abile, illuminata e originale, di un singolo. Non fa dubbio che per la grandissima maggioranza dei «pensatori» moderni una tale attitudine, in fondo, sia adeguata, inquantochè in essi quasi tutto si riduce – appunto e soltanto – ad una pura costruzione individuale con rivestimenti logici, dialettici e pseudoscientifici. Tuttavia lo Spengler è uno dei pochi autori di oggi, per i quali ciò non vale internamente.

L’opera dello Spengler intanto offre un interesse effettivo, in quanto essa, sia pure in mescolanze, trasposizioni e deformazioni di ogni genere, esprime non di rado la sensazione di qualcosa di reale, l’intuizione confusa di uno stato di cose che non è per nulla dovuto alle «interpretazioni» di un singolo. Si può dire quasi con certezza che tuttavia lo Spengler è forse stato il primo a non rendersi conto di questo – è cosa che risulta dalle sue stesse dichiarazioni circa le fonti di inspirazione delle sue più importanti vedute. Ma ciò non toglie nulla alla verità di quanto abbiamo or ora detto: son fin troppi i casi in cui l’occhio esperto riconosce come gli autori, che col loro pensiero destarono le maggiori risuonanze in una epoca, mentre intesero di svolgere un ordine autonomo e personale di pensieri, in realtà obbedirono a suggestioni confuse o trassero il loro primo impulso dalla percezione semicosciente di principii e di leggi superiori.

Il merito principale da riconoscersi senz’altro allo Spengler è di aver contribuito energicamente alla distruzione del mito progressistico e evoluzionista, di questa finzione della mentalità razionalistica e democratica moderna. La civiltà non si svolge in un ritmo continuo verso il meglio; essa non è nemmeno qualcosa di omogeneo – non esiste la civiltà, ma esistono le civiltà come organismo distinti, autonomi, aventi ciascuno una propria aurora, un proprio sviluppo, un proprio tramonto. Fra tali civiltà possono esistere dei rapporti di analogia, ma non di continuità. Non vi è ponte che conduca linearmente dall’una all’altra di esse. In particolare, la civiltà occidentale non è per nulla, come si credeva, la civiltà, l’ultima parola di un presunto impulso unitario in avanti della storia del mondo, bensì una civiltà – i suoi caratteri sono anzi quelli di una civiltà crepuscolare, di una civiltà che va verso la sua definitiva decomposizione: dopo le quali scaturirà un ciclo assolutamente nuovo, con nuove razze, nuove scienze e nuove verità.

Questa, come si sa, è la veduta centrale dell’opera maggiore e più nota dello Spengler: una veduta, che però, in quel che ha di valido, non si riduce per nulla ad una posizione filosofica personale. In una forma o nell’altra, il mondo antico sempre riconobbe, che «leggi cicliche» reggono lo sviluppo dei popoli e delle civiltà: esso seppe di grandi civiltà scomparse, di cui spesso non conservò nemmeno il nome e che per nulla concepì come «gradi evolutivi» lasciati indietro dall’umanità di allora; esso ignorò il mito progressista, riconobbe invece che il senso effettivo della storia è, per quel che concerne il lato essenziale, cioè il lato spirituale, una involuzione, una «caduta». È inutile che riproduciamo qui, sia pure in compendio, tutto quel che, altrove, in fatto di fonti e di testimonianze di ogni genere, abbiamo raccolto per dimostrare la «tradizionalità» di queste vedute, presenti con enigmatica e impersonale concordanza perfino di dettagli negli insegnamenti dei vari popoli antichi (1). E se in tali insegnamenti il «mondo che viene» fu concepito come una «età oscura» (India), o «età del ferro» (Grecia), o «età di fango frammisto ad acciaio» (Iran), e così via, ciò è evidentemente l’equivalente esatto del famoso «tramonto dell’Occidente», di cui parla lo Spengler e in cui tanti han voluto vedere non un dato di fatto, ma il riflesso in un singolo della crisi spirituale contemporanea.

Il punto di differenza, che poi corrisponde anche alla deficienza fondamentale della concezione spengleriana, sta nel fatto che questo autore non ebbe alcun sospetto della natura metafisica delle leggi cicliche della civiltà: egli concepì tali leggi come un dato naturalistico e deterministico, come un riprodursi in grande dello stesso opaco destino, per cui anche le piante e gli animali, senza, in fondo, partecipazione di una vera volontà, nascono, si sviluppano e fatalmente trapassano. In connessione a ciò, lo Spengler non ebbe nessuna vera comprensione per gli elementi spirituali e trascendenti che sono alla base di ogni grande civiltà: egli resta, in fondo, in una concezione laica, che risente fortemente di vedute puramente moderne, quali son quelle della «filosofia della vita», dell’attivismo «faustiano», del selezionismo aristocratico alla nietzschiana. Per questo, anche la sua «morfologia» delle civiltà appare difettosa o, meglio, essa prende già il senso di una interpretazione e di una «costruzione», alla quale potrebbero opporsene con ugual diritto molte altre: tale carattere hanno i varii «gradi di sviluppo», analogicamente corrispondenti, che lo Spengler si sforza di ritrovare con raffronti ingegnosi in ciascuno dei cicli di civiltà, in quello indù, greco, romano, arabo, e così via, fino a quello che egli chiama «occidentale» o «faustiano».

Per venire al punto essenziale, e senza perdersi in dettagli, lo Spengler non ha capito che, di là dal pluralismo delle civiltà e delle loro fasi di sviluppo, regna un dualismo di forme di civiltà. Egli ha sfiorato, si, questo concetto, quando ha opposto le «civiltà aurorali» alle «civiltà crepuscolari», e la «civiltà» alla «civilizzazione»: ma non riusci, in fondo, a comprendere la vera essenza delle prime. Ciò che egli ci descrive come originario, è qualcosa di abbastanza ristretto, di già scisso dal vero principio creativo spirituale delle grandi fasi ascendenti della civiltà.

La concezione spengleriana delle civiltà «aurorali» è aristocratica, come dicevamo, alla nietzschiana – l’ideale dell’uomo come splendido animale da rapina e come duro dominatore resta la dichiarata professione di fede dello Spengler, gli accenni ad un ciclo spirituale sono in lui sporadici e imperfetti, e anche inficiati da pregiudizi protestantici. Adesione alla terra e devozione del ceto servile, feudi, castelli, intimità di tradizioni locali e di comunità corporative, uno Stato organicamente articolato, un supremo diritto della «razza», intesa non in senso biologico, ma nel senso di un intimo comportamento, di una intima virilità e indomabilità d’animo, questo è lo sfondo su cui lo Spengler vede svolgersi la vita dei popoli in fase di «civiltà» (Kultur), ancor lontani dalle forme senili dell’imbarbarimento plebeo, razionalista, antiqualitativo, cosmopolita di ciò che sarà ormai solo «civilizzazione».

Ma tutto ciò è ancora troppo poco. Un simile mondo nel corso della storia sempre si è presentato come il risultato di una prima discesa – se ci si permette una analogia fisica, diremmo: di una prima «caduta di potenziale». È il ciclo della «civiltà dei guerrieri», la tradizionale «età del bronzo», che sorge a vita là dove i contatti con una realtà veramente trascendente sono già interrotti e cessano di esser la forza creatrice civilizzatrice, là dove una prevaricazione «umanistica» si è già realizzata, ogni diritto veramente dall’alto si è perduto e ad esso è subentrato un surrogato «eroico» sulla base delle possibilità di una virilità materializzata anche se non priva, talvolta, di alcuni tratti di grandezza e di gloria.

Perciò lo Spengler, lungi dall’esagerare e dal riportare le cose ad un suo personale pessimismo quando egli dipinge il mondo attuale come un mondo di decadenza, mostra di non possedere, in fondo, i veri punti di riferimento, in funzione dei quali la realtà e la estensione effettiva di una tale decadenza potrebbero esser comprese fino in fondo. Lo Spengler ci appare come un epigono del conservatorismo della migliore Europa tradizionale di ieri, di quella, che subì la sua agonia nella guerra mondiale e nel crollo degli ultimi imperi. È già qualcosa, senza dubbio: ed anche se questo punto di riferimento è relativo e non permette di cogliere i primi anelli della catena delle cause, pure esso basta già per promuovere una denuncia dei principali aspetti della decadenza moderna e per poter gittare un allarme circa il futuro che ci si sta preparando.

La parte critica e distruttrice sviluppata, su questa base, dallo Spengler, raccolga essa, o no, motivi già noti, sia essa più o meno «originale», è di indubbio valore, dimostra un radicalismo pieno di coraggio, conduce di fronte non a opinioni, ma a fatti; fatti che solo chi voglia mentire a sé stesso o agli altri può disconoscere o travisare mediante transvalutazioni sovvertitrici. È inutile ricordare, qui, la descrizione spengleriana della civiltà «crepuscolare», civiltà delle masse, civiltà antiqualitativa, inorganica, urbanistica, livellatrice, intimamente anarchica, demagogica, antitradizionale. Da quando è uscita l’opera capitale dello Spengler, tutto ciò è divenuto un luogo comune. Va piuttosto rilevato che lo Spengler, fino alla sua morte, si è tenuto fermo ai suoi punti di vista, non si è lasciato sedurre da nessuna etichetta nuova, non è sceso a compromessi come tanti, ha mantenuto il necessario riserbo di fronte a tanti correnti che, malgrado tutto, finiscono col dimostrarsi lese dallo stesso male proprio a ciò che esse vorrebbero superare. Lo Spengler è rimasto fino all’ultimo un implacabile «antisocialista»: la mistica della stessa rivoluzione hitleriana non è valsa a velargli la visione di tutto quel che va ancora combattuto e che ancora sussiste, ed anzi si accresce, come principio di ancor più paurose e finali crisi.

L’ultimo libro dello Spengler – «Anni della decisione» – ha destato nel mondo gli echi più varii, e in Germania ha procurato all’autore più di un attacco. Pochi si sono curati di studiare la giusta relazione fra le vedute esposte in questo libro e quelle della sua opera principale, della quale, a rigore, «Anni della decisione» dovrebbe esser solo un capitolo d’appendice. È una obbiezione facile, da molti avanzata, che se la legge ciclica è vera nel suo carattere naturisticamente deterministico, lo stesso problema di una «decisione», lo stesso appello ad uomini capaci di frenare e dominare le forze delle masse prorompenti, tanto da scongiurare il tracollo definitivo della civiltà delle razze bianche occidentali, risulta assurdo e contradittorio. Ciò che deve accadere, accadrà come per l’uomo si può talvolta ritardare, ma non eliminare il destino del morire. Ad un esame più approfondito questa contradizione però scompare, poiché, in fondo, anche nel migliore dei casi prospettati dallo Spengler, in quello, per cui molti superficiali nel suo ultimo pensiero han voluto vedere un revirement dal pessimismo verso un «ottimismo eroico», anche in tal caso si è lungi dal sorpassare il ciclo della «civilizzazione» (nel senso negativo di anti-cultura).

La situazione attuale dell’Occidente bianco secondo lo Spengler è caratterizzata da due rivoluzioni mondiali, interna l’una, esterna l’altra. La prima, in una forma o nell’altra, si è già quasi realizzata, è la rivoluzione sociale, l’affioramento dell’elemento massa, che va a compenetrare di sé tutte le forme e i valori della vita moderna ed «evolvendo», volgendo con le sue varie «rivendicazioni» ad una specie di suo capitalismo e di benessere standardizzato, si fa principio di tensioni e crisi economiche senza pari nella precedente storia. La seconda rivoluzione è quella che si prepara fra le razze di colore, le quali, europeizzandosi, elaborando per sé stesse la «civilizzazione» e gli strumenti di potenza delle razze bianche, si agitano minacciose e ansiose di scuotere il giogo, di emanciparsi e di strappare definitivamente all’Occidente la sua antica egemonia. Forse le due rivoluzioni convergeranno, come in Russia (che lo Spengler considera ritornata all’Asia attraverso il bolscevismo); ed allora sarà il crollo ultimo della civiltà occidentale.

Di contro a tali prospettive minacciose lo Spengler non sa invocare, di nuovo, che l’ideale della «bella bestia», «l’eterno istinti guerriero dell’uomo animale da rapina» latente nei periodi di tramortimento «civilizzato», ma pronto a scattare là dove la sostanza vitale dei popoli si sente minacciata di distruzione. Siffatto istinto deve manifestarsi nella razza bianca in queste ore della decisione e, affermandosi, deve condurre ad una nuova epoca cesarea. Nuovi Cesari dovranno incatenare e guidare le masse in future guerre, che non saranno più fra nazioni e nazioni, ma fra continenti e continenti, e  la cui posta sarà l’impero del mondo, imperium mundi.

È una visione corrispondente in tutto e per tutto a quell’«anima tragica faustiana, assetata d’infinito», che lo Spengler considerò come principio primo del ciclo «occidentale», e come qualcosa di positivo, laddove per noi, cioè da un punto di vista tradizionale, essa sta invece fra i principali fattori della stessa decadenza occidentale. Ma, a parte le valutazioni, l’accennata visione spengleriana può ben considerarsi come un adombramento di cose reali che si maturano e di fronte alle quali bisogna tenersi pronti. La via, in tutto ciò, per venire ad una resurrezione, per propiziare un ritorno alle forme di una civiltà normale, tradizionale, retta dallo spirito, resta però tutt’altro che chiara. Anche gli enormi imperi, i quali conosceranno solo il binomio masse-cesari, non rappresentano che un potenziamento del cancro stesso del metropolitismo devastatore, della demonia delle masse, insomma, rientrerebbero in pieno nella sintomatologia delle civiltà di decadenza: anche se in essi le masse saranno di nuovo incatenate, costrette ad una nuova ascesi del lavoro in nome della nuda, assoluta volontà di potenza degli enti supernazionali a cui appartengono. Né le qualità degli uomini dal pugno di ferro, degli animali da rapina dominatori, sono quelle dei Capi veri – i Cesari dello Spengler hanno già ben poco a che fare con lo stesso Cesare storico, il quale seppe dichiarare: «Nella mia stirpe vi è la maestà dei re, che eccellono per potenza fra gli uomini, e la sacrità degli dèi, che hanno la potenza dei re nelle loro mani».

Il compito vero non sarebbe di vincolare e galvanizzare le masse, ma di distruggerle come masse, creando in esse di nuovo delle articolazioni, classi, caste, modi differenziati di sentire, di agire, di volere, infine un clima veramente spirituale, un comune orgoglio nell’obbedire e nell’ordinarsi gerarchicamente di fronte ai portatori di una vera autorità dall’alto. Solo in tal caso i bagliori del crepuscolo potrebbero da luogo alle luci di una prima aurora e il punto morto della fine di un ciclo potrebbe esser sorpassato. Ma, nel riguardo, lo Spengler ci dice ben poco.

Apoteosi di Guglielmo I, Re di Prussia e Imperatore di Germania (cliccare per ingrandire) (free image from pixabay.com, author: falco)

Mentre i più nell’ultima sua opera, per ignorare le vere linee di vetta e per soggiacere ai fantasmi di quest’èra ultima, vedono un risollevamento eroico-ottimistico nei confronti del libro principale, chi ha uno sguardo più lungo vien portato a domandarsi se invece non si tratti di una visione della disperazione. Anche negli «Anni della decisione» lo Spengler appare più come colui che ha dato espressione a sensazioni confuse, benchè reali, di avvenimenti che si maturano, che non colui al quale il possesso di veri principii permette di dominare la contingenza dei tempi e di suggerire un vero orientamento alle forze costruttive.

L’unico punto fermo dello Spengler, nel riguardo, è il suo ideale «prussiano» (si badi, per lo Spengler «prussiano» non è un carattere nazionale, ma la designazione generica di un modo d’essere, di un carattere: «non è prussiano ognuno che nacque in Prussia: questo tipo è possibile dovunque nel mondo bianco, e invero lo si trova ancora, benchè di rado»). «Prussianesimo» è senso di «razza», «disciplinata dedizione, interna libertà nell’adempimento del dovere, autocomando, autodominio in vista di una grande meta», «ordinamento aristocratico della vita secondo il rango delle varie attività». Pur rimanendo nel semplice ambito delle «discipline», tutto ciò è, certo, un saldo riferimento tradizionale, antisocialista e antidemocratico, e può costituire un punto di partenza per coloro che ancora resistono. Lo Spengler, che non è stato senza riserve di fronte alla Germania di oggi, la quale, nelle sue fisime «rivoluzionarie» dimostra così poca comprensione per il suo stesso migliore passato «prussiano», ha attribuito invece, nel riguardo, un leale riconoscimento al fascismo. Egli ha nello stesso tempo intravisto che i regimi fascisti di questi decenni «dovranno evolversi in nuove, imprevedibili formazioni» e che lo stesso nazionalismo di tipo attuale sarà destinato a scomparire. In un imperium mundi che, sotto il segno dell’una razza o dell’altra, a parte la sua èlite prussiano-cesarea, finirà col ripetere lo stesso assurdo bolscevismo? Questo è il limite, in cui le forze di visione dello Spengler han vacillato. Egli non ha saputo darci i termini veri dell’alternativa per la grande decisione. Egli è stato piuttosto l’epigono del mondo che volge verso la fine, di cui ha colto il destino un una drammatica visione.

Nell’immagine in evidenza, una foto di Oswald Spengler rielaborata da Antonio Pires



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