Idee su uno Stato come Potenza

Proponiamo oggi, sempre in linea con le elaborazioni del primo Evola circa l’autarchia dell’Individuo Assoluto, Signore e Sovrano che porta a compimento l’idealismo magico post-filosofico, manifesto della “metafisica evoliana” di quel periodo, una metafisica “del divenire”, del potenziamento, dell’individuazione e della dominazione, in cui l’Io si riafferma come Ente di Potenza, in una prospettiva ancora intrisa d’immanentismo, un articolo in materia di concezione dello Stato con cui Evola, il 1 settembre 1926, dava inizio alla sua collaborazione con la rivista “Critica Fascista” diretta da Giuseppe Bottai.

Evola fu commilitone di Bottai al fronte sull’Altopiano di Asiago, durante la prima guerra mondiale, e proprio con lui, nel 1926, aveva riallacciato i contatti, proponendogli di lanciare un programma rivoluzionario che investisse il piano della visione fascista della vita ed anche il delicato tema del rapporto tra fascismo e cristianesimo. L’assenso entusiastico di Bottai portò alla suddetta collaborazione sulle colonne di “Critica fascista”, con questo primo articolo che riprendeva e sviluppava temi già affrontati in precedenza da Evola, in occasione della sua collaborazione con il quindicinale “Lo Stato democratico”, in particolare nello scritto “Stato, potenza e libertà” (1 maggio 1925).

Traslando la dottrina dell’Individuo Assoluto sul piano politico, Evola descriveva i tratti del Capo dello Stato quale Autarca, dominatore e legislatore incontrastato, che, una volta autorealizzatosi compiutamente, per interiore superiorità raggiunge un tale livello di autosufficienza (libertà  assoluta) da renderlo non più soggetto a limiti o controlli esterni, e che, a mezzo della propria Potenza di matrice puramente spirituale, può dare forma, scopo e gerarchia alle masse. Tale Potenza trae origine dalla superiorità, non viceversa, spiegava Evola: e di tale potenza la violenza materiale è la forma più inferiore, grossolana, da trascendere, per utilizzare le idee-forza o miti quali strumenti, mezzi di temporanea imposizione (ad esempio il concetto di “Patria”), da trascendere a loro volta fino a giungere all’affermazione totale di sé come Centro, Essere manifestato, polo di attrazione per l’inferiore, attraverso cui il Superiore s’afferma. Si rimanda, sull’analisi dei miti come idee-forza, all’interessante saggio evoliano pubblicato nel 1936 su “La Vita Italiana”, e da noi riproposto di recente in tre parti.

Nel finale Evola si sofferma brevemente sul tema uguaglianza-disuguaglianza, anche il rapporto al Cristianesimo ed al Cattolicesimo, al Ghibellinismo ed al Guelfismo; tematiche queste ultime che certamente meriterebbero maggiore approfondimento ma su cui l’Evola di quegli anni aveva idee abbastanza orientate, che in parte avrebbe rettificato o comunque approfondito, pur mantenendo la medesima impostazione di fondo.

Certamente l’articolo rimane un’interessante testimonianza di applicazione del concetto di Individuo Assoluto al tema del Capo di uno Stato gerarchicamente organizzato; ma risentiva ancora di quell’immanentismo e di quell’impostazione profondamente individualizzata (si usa questo termine per distinguerlo dall’aggettivo “individualistico”, che ha altre implicazioni) che Evola avrebbe dovuto correggere (il Principio sembra ancora essere il Singolo che si autorealizza, si “divinifica”, più che un Ordine Superiore che si manifesta nel Singolo che ha raggiunto un certo livello di realizzazione spirituale). Rimandiamo alla sezione “Dottrina dello Stato” per un’ampia selezione di altri successivi articoli in cui Evola riprenderà e svilupperà le tematiche relative al concetto di Stato, affinando e portando a compimento le intuizioni già sviluppate da giovane, in un’ottica sempre più oggettivata ed intrisa di trascendenza e quindi sempre meno soggettivata (seppure in chiave assoluta) ed intrisa di immanenza.

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di Julius Evola

tratto da “Critica fascista”, IV, 17, 1 Settembre 1926

Per noi, il concetto di gerarchia e di Stato secondo potenza si fonda su quello di una assoluta libertà. Per essere assoluta, una libertà occorre che sia incondizionata.

Ma incondizionatamente libero, evidentemente, è uno solo. Più esseri liberi non possono che limitarsi e negarsi a vicenda – a meno che non vi sia nel profondo di ciascuno di essi una legge, da cui le singole libertà siano regolate e armonizzate. Ma poiché una legge per il fatto di essere interna non cessa di essere legge; e detta legge è inoltre, per ipotesi, qualcosa che trascenda ogni singolo individuo, in tale caso non vi ha, egualmente, una incondizionata libertà.

Dunque: o pensarla impossibile e passare in compromessi che, come tali, la contraddicono (liberalismo: si nega la libertà per far vivere le molte, singole, atomiche libertà); ovvero pensare ad un essere che per interiore superiorità cessando di essere una forza fra tante altre in quel sistema dinamico, che è l’umanità sociale, si attui in ciò che, come determinatore della legge di detta unità, sia, esso, libero dalla legge la quale agli altri diverrà autorità. Ed allora nel libero legislatore, nel dominatore, si costruisce l’idea dello Stato come potenza.

Infatti: la gerarchia che può culminare, ardere in un unico essere riflette il valore, di cui sopra, soltanto quando sia paragonabile ad un organismo uno nella sintesi di un’anima, di uno spirito.

L’unità in cui converge un tale organismo è una vita superiore che ha fine in sé medesima, che non vive per i bisogni del corpo, ma il corpo invece ha quale suo strumento; che non è prodotta dal corpo, ma viceversa, nel senso che l’anima è il fine, il profondo principio organizzatore del corpo stesso (Aristotile). Ciò significa: il Capo non sarà il mero rappresentante degli inferiori (tesi democratica), il simbolo impersonale di una autorganizzazione di cui questi siano già capaci, ma viceversa – la massa, il popolo non sarebbe organizzato, riceverebbe forma ed ordine solamente in virtù dell’uomo superiore, qualitativamente distinto dagli altri, che esso faticosamente tende ad esprimere; e questi, lungi dal vivere per esso, subordinerebbe al suo – a quei più vasti orizzonti che lui solo può determinare – l’interesse della massa e alla sua legge a nessuno riconoscerebbe il diritto di dare una sanzione (in recisa opposizione ai principii democratici di sanzione popolare e di dedizione del governante all’interesse generale). Altrimenti al vertice non starebbe un essere libero, sibbene il primo dei servitori – non uno spirito, ma la voce del corpo.

Ma, porre ciò, significa, anche, porre che la minore delle libertà è la potenza. Come l’anima – nella quale hanno fine le varie parti, ma essa in sé medesima – considererà le condizioni e le limitazioni che le vengono dal corpo come una imperfezione e non le tollererà ma tenderà a superarle in perfetto dominio, in un organismo interamente plastico allo spirito, così il dominatore si comporterà rispetto alle varie condizioni (politiche, sociali, economiche, ecc.) proprie alle masse.

La sua libertà, il suo diritto, il suo essere – come fine a sé – valore, si estenderà dunque per tanto, per quanto egli abbia potere di eseguire ciò che voglia, la «responsabilità», sotto ogni riguardo, avendo senso soltanto quando ci si trova dinnanzi ad una più forte potenza. Perdendo un tale potere, egli perderà altresì il diritto di comandare e dovrà far luogo a colui che, più potente, saprà imporre la propria legge. Così senza la potenza il legislatore, l’apice dell’essere libero, non ha fondamento e, qualora tuttavia sussista, sussisterà in modo contingente e precario, basandosi non su sé, ma su altro, non sulla propria forza ma sull’altrui debolezza (compromessismo).

Di tale potenza, pertanto, la violenza è la forma più inferiore. La violenza esprime, infatti, uno «star di contro» (quindi: allo stesso livello) e non uno «star di sopra»; essa presuppone che altre volontà possano resistere, e così testimonia, in ultima analisi, una impotenza, un rapporto estrinseco, polemico, dipendente, non veramente gerarchico e dominativo. Chi veramente può, non ha bisogno di violenza: non ha antitesi – si impone direttamente in virtù della sua interiore, individuale superiorità a ciò che egli comanda – e così è accaduto in tutti i reali dominatori che la storia ci mostri e ancor più al limite di una tale via, ove essa sconfina nel Maestro e nel Creatore di religioni.

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Onde la violenza (e, con essa, tutto ciò che è forza materiale) non apparirà che come una fase rudimentale e provvisoria. Di là da essa, il dominio mediante idee, considerate non come pallide astrazioni, sibbene come forze, come principii suscettibili a scatenare energie e correnti sociali attraverso i vari fattori morali, suggestivi, sentimentali, di fede, ecc. Resterà fermo, pertanto, che il legislatore non assumerà le varie idee o miti (diritto, giustizia. ecc.) in quanto vi creda, in quanto vi riconosca una superiore validità a cui egli stesso si sottomette, ma invece come puri mezzi, come semplici aspetti di quella potenza, che va dominata (antirettorismo, antidealismo).

Ma anche questo grado implica un compromesso, e va trasceso. Le varie idee-forza o miti al dominatore non dovrebbero servire come un appoggio e una condizione, giacché lui solo deve essere la condizione. Pertanto tali idee – massima quella di «patria», in cui culminano – implicano forzatamente qualcosa di trascendente e di impersonale, così che altri mostrando situazioni sociali che più di quella determinata dal gruppo imperante le corrispondano, può ritorcere contro di questo gruppo le forze su cui si basava il suo dominio.

Onde il dominatore, alla fine, abolirà la stessa idea di «patria», cioè la immanentizzerà, e non lascerà che sé stesso, il suo nudo essere, centro sufficiente di ogni responsabilità e di ogni valore. Dirà: «Lo Stato, la Patria, sono io».

E da qui comincia il punto della potenza vera: non trarre la superiorità dalla potenza, ma la potenza dalla superiorità – questo è il principio.

Il dominatore è colui che dispone di una più alta quantità di essere, da cui gli altri sono fatalmente – quasi senza che, in un certo senso, lui lo vogliaaccesi, attratti, travolti; è colui che si impone, per così dire, con la semplice presenza, come uno sguardo più profondo e temibile a cui gli altri non sanno resistere, come quella calma grandezza che paralizza magicamente anche braccio armato e slancio di fiera e direttamente suscita rispetto, bisogno di obbedire, di sacrificarsi, di rimettere in questa più vasta vita la vita più vera. In costui tutta una stirpe, tutta una tradizione, tutta una storia ardono, come nel loro atto: cessano di essere astrazioni, cessano di essere trascendenti, generalità, si fanno realtà individua, concretezza, vita – vita assoluta, perché fine a sé stessa, perché libertà pura – spirito, luce.

E così, al culmine, colui che può dire: «Io sono la via, la verità, la vita» e che dà a tutta la moltitudine degli esseri, a tutto il sistema dei determinismi inferiori della vita pratica la sua unità, il suo senso, la sua giustificazione. Ché l’inferiore non vive mai cosi perfettamente la propria vita che quando questa abbia il suo fine in un superiore – la parte, che quando si sappia membro di un corpo che non in sé stesso, ma in un’anima – in un’anima che è una realtà, un Io e non pallido ideale, astratta legge – ha la propria ragione.

Le lotte per l’uguaglianza sono le moderne armi per fiaccare le forze e deviare le anime.

La possibilità generica per il compimento di questa, come di qualsiasi altra organizzazione e gerarchia, riposa nel cosiddetto «principio degli indiscernibili» (Leibniz), cioè: Un essere che fosse assolutamente identico ad un altro, sarebbe una sola e medesima cosa con esso. Nel concetto di moltitudine è dunque implicito quello di una fondamentale ineguaglianza dei singoli – di una ineguaglianza, quindi di una possibile gerarchia fra essi. Il principio cristiano di eguaglianza logicamente conduce all’opposto – all’antiautoritarismo, al democratismo, al socialismo, all’anarchia – alla disorganizzazione (e appunto in questo senso esso ha operato sull’impero romano).

In quanto il cristianesimo invece costruisca una gerarchia (come quella delle Chiese e, specificamente, della Chiesa cattolica), deve tradire il principio di eguaglianza – ma allora diviene un nemico rispetto allo Stato, di cui sopra si è, sia pure con linee grossolane, indicato il concetto. Poiché esso costituirebbe una autorità di contro ad un’altra, un impero di contro ad un altro – mentre il principio deve essere uno. Un impero il cui dominio sia puramente materiale, può coesistere con una Chiesa che a lui può dare quell’anima di cui manca; ma un impero che non sia tale che in quanto lo permei una immanente spiritualità – una spiritualità che tuttavia non è materia di fede sognante ma valore immanente in atto in un individuo – deve soppiantare, assorbire, subordinare a se ogni Chiesa (antiguelfismo). Tale il concetto romano di impero – il Cesare Augusto, il Dominatore regale e sacerdotale; concetto che è altresì quello pitagorico, mithriaco, dantesco.

Abbiamo delineato il presente concetto di Stato affatto a priori, indipendentemente da qualsiasi realtà storica. Apriorismo, pertanto, non significa astrattismo. L’idea deve giudicare la realtà, non viceversa. Compito della speculazione non è di constatare ciò che è, ma di determinare nell’incerto mondo degli uomini ciò che, come valore, deve essere. E se ciò che deve essere non corrisponde a realtà, non si dovrà per questo dirlo astratto, ma astratta ed ignava dovrà invece dirsi la volontà e la potenza degli uomini, che sono insufficienti alla sua realizzazione.

Onde non sarebbe senza interessi esaminare fino a che punto il concetto di Stato quale oggi si è riaffermato in Italia possa riflettersi nelle vedute da noi così sommariamente esposte e considerarle nell`eventuale conato ad un ulteriore compimento.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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