Stile classico e «classicismo»

Vi proponiamo oggi un importante articolo di Julius Evola tratto da “La Stampa”, quotidiano dove il barone scrisse diversi significativi articoli nel biennio di guerra 1942-1943. Qui si affronta il tema del vero significato della classicità, come stile di vita e visione del mondo, specificando la differenza con il mero classicismo, ripresa distorta dei temi classici in epoca umanistico-rinascimentale, con l’accentuazione di aspetti legati all’estetismo, al soggettivismo umanistico, alla “cultura”, al pathos, alle derive sensualistiche: Atene e non più Sparta, la Roma tardo-imperiale ellenizzata e orientalizzata e non più quella catoniana delle origini e del mos maoirum sono i riferimenti equivoci di tale “riscoperta” distorta del classico.

Anche tale tematica, su cui torneremo con altri scritti, aveva un peso notevole negli anni della terribile “guerra cosmica” mondiale: Evola stesso scrive, in fondo al suo articolo, che “più di tutto, proprio la ripresa di questa forza pura, siderea, inattenuata delle origini oggi ci farebbe bisogno, per tenerci in piedi, per renderci interiormente incrollabili in questi tempi della decisione, in questi tempi ove forze ben più profonde, che non quelle del mondo della «cultura», delle «scienze e delle arti», sono in moto“.  Ed Evola affronta il tema con una ricchezza di contentuti e di riflessioni che rendono tale articolo un piccolo capolavoro di concisa chiarezza.

Da notare infine che Evola ritorna, anche nel caso dello stile classico, dorico-romano delle origini e del miglior medioevo, sul fondamentale richiamo al “primordiale” e all’”elementare”, già affrontato con riferimento al contatto con le forze della natura, col rinvio al miglior Juenger nella valutazione dell’esperienza della trincea e della tecnica sulla vita umana, e con riferimento all’arte ed all’architettura. Si rimanda a quanto osservato nella nostra introduzione all’articolo evoliano “Realismo, architettura nuova e fascismo” proposto di recente.

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di Julius Evola

tratto da “La Stampa”, 1942

Uno degli elementi che, da noi, più ostacolano un «ritorno alle origini», una ripresa vivente di quel che di più severo e di più originario presentano le nostre tradizioni, è costituito dal pregiudizio «classico».

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Un tale pregiudizio procede essenzialmente dalla mentalità estetica e «umanistica» — vogliamo dire, da una mentalità, che come nucleo essenziale delle civiltà è incline a vedere il «mondo delle arti e delle lettere», le varie forme di una creatività e di un pensiero aventi per base l’elemento puramente umano, la «cultura», con stretta relazione a quel che è raffinamento di vita materiale e umanistica. Per cotesta mentalità il mondo antico ha valore, essenzialmente, in quanto è «classico» in tal senso: sì che per essa, nel riguardo, il punto di riferimento è più Atene, che non Sparta, è più la romanità a partir dal più tardo periodo repubblicano che non quella, giudicata semi-barbara, delle origini. Ed anche nel riguardo di altri periodi storici, l’attitudine di tali ambienti è più o meno la stessa: la si può riconoscere facilmente nella sopravvalutazione del mondo estetistico e «creativo» dell’Umanesimo di contro alla civiltà imperiale e feudale del Medioevo e ancor oggi la ritroviamo nel disagio di certi «intellettuali» di fronte a questi tempi duri, sostanziati di discipline e di lotte, nella loro nostalgia per la «cultura» dell’Ottocento liberale e borghese. Ora, dovrebbe divenir sempre più vivo il sentimento che in tutto ciò si tratta di uno sfasamento; sfasamento pericoloso, perché determina una confusione di valori, che sa perfino d’intenzionale e di tendenzioso, dato che per conseguenza essa ha un rilievo dell’accessorio, un tacitamento o una deformazione dell’essenziale già in relazione a quel che veramente devesi chiamare classico.

Come «classico» noi infatti dobbiamo essenzialmente intendere uno stile, una formazione di vita, una visione del mondo, una forma dell’essere interiore, una tradizione come forza profonda che vive nel sangue, anzi ancora più nel profondo che non nel sangue, avendo in tutto quel che è creatività estetica, mondo del «pensiero» e delle arti solo un riflesso postumo, un’espressione secondaria e in fondo contingente, qualcosa di simile ad un’eco. Può infatti esser individuato — nell’antica Ellade, come in Roma, e noi ardiremmo dire nello stesso Medioevo romano-germanico — un ciclo «classico», la cui potenza non fu per nulla menomata dalla povertà delle espressioni e delle creazioni sul piano estetico e «umanistico». Il punto centrale dell’ideale classico è certo l’amore per la «forma»: ma la forma si può intenderla e realizzarla su di un piano di forze pure, come ethos, come tenuta dell’animo, come stile di una vita virile, completamente dominata, chiara, libera da passioni e da vane agitazioni, sostanziata di forza, contenente «in magnifica misura la smisuratezza stessa dell’infinito». Il vero elemento classico ha sempre qualcosa di «elementare», staremmo perfino per dire di «barbarico» — e questo Nietzsche, a cui pur sfuggì del tutto il vero senso dell’ideale apollineo, lo comprese bene: appunto perché non vi è stile classico ove il contatto con l’originario sia sospeso, dove il limite, la linea, la forma non esprima appunto la potenza di una vita piena, che domina sé stessa, e che nella sua intensità e purità si tiene ben lontana da tutto quel che è «psicologia», soggettivismo, personalismo.

Così il vero stile dorico, come quello della prima romanità, come quello del migliore Medioevo, è essenzialmente uno stile di una impersonalità positiva, nemica di tutto ciò che è «intimismo», nemica di tutto ciò che è accessorio, contingente, inessenziale. Qui vale l’opera, non il «creatore»; qui vale l’azione, non l’autore; qui vale il monumentale, non l’espressionistico, il lirico e l’«umanistico»; qui vale ciò che si esprime come la gran voce stessa delle cose, e non quel che procede da abilità artificiosa e da disordinata genialità. Qui la disciplina è un valore. La fermezza, la calma dignità è un valore. La legge, inattenuata, assoluta, è un valore. E un valore è, al limite, l’ideale olimpico, quello di una chiarità, di un ordine, di una gerarchia, di un kòsmos, di una sovranità che ha risolto il chàos e sovrasta l’elemento umano, come la chiarità gelata e disincarnata delle cime sovrasta le nebbie e le forme confuse delle valli. Ciò che è classico in questo senso aspetta ancora, in larga misura, di essere scoperto. Ed esso è difficile a scoprirsi, appunto perché si trova alle origini, là dove le forze erano ancora abbastanza raccolte, in intensiva austerità, per dar luogo a una ricchezza di espressioni e a forme periferiche apprezzabili in termini di «civiltà» e di «cultura» nel senso già decadente, esterioristico, di tali termini.

Così che la riscoperta del mondo classico, del mondo ario e virile della «forma», ha per presupposto il superamento della mentalità «classicistica» e una serie di precise revisioni storiche. Ma questa è anche la condizione per cogliere quel che di più puro, di più «ario», di più inattenuato presenta la stessa tradizione romana. Tutto, nella prima romanità, in quella che non conobbe l’ellenizzazione e l’asiatizzazione, ci dice della potenza di una componente «classica» nel senso ora indicato. Classici sono i tratti dello stile, della virtus, della tenuta interiore, le tradizioni romane sempre riconobbero nei maiores nostri — son quegli stessi tratti, per cui ai primi ambasciatori greci, che credevano di trovarvi un’accolta di «barbari», il Senato romano apparve invece come un «concilio di re». Classici sono i tratti del primo diritto aristocratico romano. Classici sono gli elementi fondamentali del culto romano, scevro di misticismi e devozionalismi, non bisognoso di immagini mitologiche, incentrato nella nuda potenza dei riti.

Classica è la volontà romana di forma, che, originariamente, non creò statue e opere d’arte, ma uomini, sul piano etico, politico e eroico cosi come in quello sacrale che il flamen dialis, questa figura tipicamente romana di sacerdote, poté apparire come «una statua vivente della divinità olimpica». Classica è, infine, la volontà romana di imperium, quale lo stesso Virgilio l’intese: giacché se a tutti sono le parole virgiliane: tu regere imperio populos Romane memento, meno noto è però il senso complessivo di questo testo: reggere con l’imperio i popoli, questo, o Romano, ricordati, sia il tuo ideale, non le arti, non le lettere, tale è l’idea complessiva del testo virgiliano, perfettamente aderente all’idea spartana, antiumanistica, eroica e rigidamente etica del periodo catoniano. Realtà, più di tutto, proprio la ripresa di questa forza pura, siderea, inattenuata delle origini oggi ci farebbe bisogno, per tenerci in piedi, per renderci interiormente incrollabili in questi tempi della decisione, in questi tempi ove forze ben più profonde, che non quelle del mondo della «cultura», delle «scienze e delle arti», sono in moto. Che le fonti di una cultura borghesemente e umanisticamente concepita si palesino oggi sempre più inaridite, oggi, alla fine, può perfino non significare un male, giacché noi non vediamo rivoluzione e ricostruzione vera che in una nuova epica «classica», in un nuovo classicismo dell’azione, della forma assoluta, del dominio.



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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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