In occasione della ricorrenza storica del 28 ottobre, presentiamo da oggi, suddivisa in tre parti, una approfondita recensione che Julius Evola pubblicò sulle colonne di “Vita Italiana” nel febbraio 1940, della celebre “Storia della Rivoluzione Fascista” di Roberto Farinacci, edita in tre volumi nel 1937. Come noto, Evola stimava profondamente Farinacci, da lui considerato uno dei migliori uomini che il Fascismo italiano potesse vantare tra le proprie fila, come ci confermano le parole spese dal barone nei suoi confronti già nella prima parte dell’articolo. I due erano legati da una sincera amicizia, e non a caso Evola, come abbiamo più volte sottolineato, pianificò con Farinacci una lunga collaborazione in seno a “Il Regime Fascista”, con la terza pagina del Diorama Filosofico. Molto significativo al riguardo fu anche il ricordo che Evola fece del “Ras di Cremona” in un articolo pubblicato su “Meridiano d’Italia” l’8 maggio 1955 e da noi riproposto del 2016, dove ebbe modo di scrivere di lui utilizzando parole che certamente il barone non spendeva non facilità, come ad esempio queste: “Egli resta per me una figura indimenticabile di uomo retto, leale, coraggioso e libero, lontano da ogni cortigianismo e da ogni tortuosità, radicalista e di pugno fermo là dove occorreva, in pari tempo con l’animo aperto anche per valori d’ordine superiore”. Evola recensì nel 1940 l’opera monumentale di Farinacci mettendone in rilievo i notevoli pregi, ma senza risparmiare ovviamente le necessarie critiche. Particolarmente interessante sarà, nella terza puntata, la “Postilla” a firma dello stesso Farinacci, che, da uomo di tempra, non ebbe timore di ribattere, sia pure senza spirito polemico, ai punti di dissenso espressi dal “camerata Evola”, mostrando di ricambiare la stima manifestata nei suoi confronti.
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di Julius Evola
Tratto da “Vita Italiana”, febbraio 1940
Prima parte
“La storia punisce a morte l’ignavia, distribuisce i diritti secondo i valori, vince l’arbitrio e la menzogna, pesa i meriti infallibilmente. Se ogni popolo, solo perché vive, avesse diritto di vivere, e se i diritti e i valori di ogni popolo fossero giudicati dalla estimazione degli uomini anziché dal giudizio di Dio, noi non avremmo mai avuto l’impeto per combattere e per morire. Noi siamo stati sempre certi che, attraverso la lotta inevitabile, il sacrificio dei migliori fa migliori i superstiti e rende più potente lo spirito. Per questo l’uomo è un eroe, perché cade sotto il peso della grande fatica, affinché Dio viva in eterno ed egli non muoia invano.
Che è mai un popolo, se non questo dovere armato, questa autorità sacra, questa volontà sovrana di chiedere il giudizio della storia e ripudiare il giudizio di ogni uomo? Un piano democratico di giustizia è arbitrio di uomini che riconoscono diritti e dispensano premi per l’eternità, fuori di ogni valore, di uomini che sperano la pace in quella menzogna che tutte le nazioni eguaglia, nobili ed ignobili, ed assicura l’impunità agli ignavi che disertano la storia. Ma la legge della vita, più forte di ogni menzogna, restaura la gerarchia delle dignità e punisce l’ingiusto arbitrio con altro sangue”.
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Roberto Farinacci
Forse in nessun’altra occasione la professione di fede eroica, la concezione guerriera – ma in pari tempo compenetrata di significati trascendenti – della vita e della storia di Roberto Farinacci ha avuto una espressione così chiara, precisa, univoca, come in queste parole della sua «Storia della rivoluzione Fascista» vol. I, 84-85. Così, nulla, meglio che queste parole, può farci penetrare l’ultimo senso dell’attività di questo Uomo, cui tanto deve la causa della rivoluzione, in tutte le forme di questa sua stessa attività: da squadrista delle primissime ore, da compagno fedelissimo del Duce, da uomo politico, da scrittore, da giornalista e pensatore, da aviatore, da volontario di temeraria audacia nella campagna abissina, infine, da antesignano di quelle nuove fasi della rivoluzione fascista, che dovevano condurre allo smascheramento delle forze più pericolose e segrete del fronte della sovversione mondiale e ad una lotta senza quartiere del fascismo contro di esse.
Ed è poi naturale, che solo a persona animata da una tale concezione eroica della vita riuscisse, in via particolare, di comprendere il senso del movimento e dei destini, che han condotto il fascismo al potere, secondo una profondità e una totalitarietà, che sarebbe difficile riscontrare in una qualunque delle tante opere uscite, in Italia e fuori, su tale argomento. La «Storia della rivoluzione Fascista» è e resterà, nel riguardo, un’opera classica; esaurientissima e esattissima nella documentazione, di chiarezza cristallina nello stile, intenta non solo a seguire gli svolgimenti degli avvenimenti italiani, ma a sorprenderne il ritmo di contrappunto con tutta la politica europea del dopoguerra, in essa a tutto ciò si unisce la fedeltà ad una idea centrale individuata con sicuro intuito e svolta in tutte le sue conseguenze, così come l’immediatezza di qualcosa di intensamente vissuto, un vibrare, una pienezza di sentimento e di fede che prende e trasporta il lettore. Ed è per questo che, anche là dove, dal punto di vista dei puri principii, alcune formulazioni potrebbero suscitare un dubbio, un tale dubbio viene subito rimosso dalla percezione precisa e intuitiva dei supremi punti di riferimento, ai quali, nell’opera di questo Capo, il tutto si subordina.
Farinacci parte dalle origini. A ragione egli crede che il fascismo, lungi dall’essere un fenomeno staccato, prendente senso sopratutto dall’antitesi bolscevica, è il coronamento di un lungo sviluppo e la soluzione positiva e definita di una problematica, in cui le forze della razza italiana si trovavano impegnate da secoli. Tutta una serie di prove ebbe a subire la personalità storica della nazione italiana. La prima – secondo Farinacci – fu l’insurrezione dei Comuni contro l’Impero; la seconda il Risorgimento; ma solo la terza – la guerra mondiale, in cui tutti i ceti e tutte le regioni hanno combattuto – è stata decisiva.
“Prima del 1915 è onesto confessare che il giudizio della storia sull’energia della nostra unità nazionale era ancora sospeso e che il nostro Stato era il più debole fra quelli che venivano inscritti nell’anagrafe delle grandi potenze (I, 9-10). Nel punto in cui il popolo italiano insorse, gridando: la guerra o la rivoluzione, suonò l’ora decisiva della razza italiana, si iniziò un ciclo nuovo. La guerra ci fu, per quello che a noi era necessario sopra ogni altra cosa: per la prova del sangue che a noi si richiedeva, la quale fu così gloriosa, che noi questo sangue lo gettammo via, lo prodigammo come in un tremendo rito di religione, con un orgoglio e una generosità e una fede, che non hanno riscontro nella storia dei popoli” (III, 220,219).
La borghesia del regime liberal-democratico prebellico si era illusa di aver liquidato il Risorgimento, cioè di aver condotto alla «normalità» di un sistema anodino e imbelle le forze eroiche della stirpe manifestatesi nelle vicende e nelle lotte per l’unità italiana. E tanti episodi tristi di quel periodo, Adua, le umiliazioni internazionali, il pantano parlamentaristico, la mediocrità del livello ottocentesco di vita, sembravano confermare questa persuasione, di aver ormai passato in archivio il Risorgimento. Il 1915 sconfessa questo mito. L’Interventismo, quale pur siano le ragioni che lo abbiano alimentato, prova che la fiamma eroica non si era spenta, ma solo ritirata nella subcoscienza della razza. E Farinacci rileva giustamente, che le difficoltà diplomatiche, l’impreparazione militare, l’infermità di governo, la deficienza dei capi, dando all’intervento italiano il carattere di una avventura quanto mai rischiosa, valsero con ciò stesso a render precisa “la prova che si chiedeva al valore italiano, quella, in cui si decise, se noi avevamo diritto alla nostra vita di popolo” (I, 13).
Tutto ciò è completamente giusto, come è giusto che, a tale stregua, la dichiarazione di guerra può ben considerarsi come il primo episodio della rivoluzione fascista. Cosa che fu ben chiara a Mussolini, quando egli nel 1919 scrisse: “La rivoluzione continuata sotto il nome di guerra per quaranta mesi non è finita. Può avere un ritmo più o meno affrettato. Ma continua” (I, 130).
In egual misura si potrebbe dire che il periodo del dopoguerra ha significato il continuarsi, sotto altre forme, della stessa prova, che la guerra aveva rappresentato per le forze più pure della razza italiana e qui vorremmo già dire: della razza romana. Il dopoguerra italiano vide in realtà questo inaudito paradosso: della vittoria, si volle fare una sconfitta. Anziché esaltare la guerra perché essa aveva condotto, malgrado tutto, alla vittoria, si mosse un processo contro la guerra. Questo fu il capolavoro di disfattismo della classe borghese politicante, demoliberale, che l’interventismo aveva scalzata e che ora, approfittando di circostanze contingenti e del necessario dissenso proprio al primo periodo postbellico, tornava alla riscossa, fiancheggiata da forze che, pur partendo da diverse ideologie, si trovavano sulla stessa linea di condanna dell’interventismo e di diffamazione della guerra e della vittoria italiana.
Erano, queste ultime forze, il risultato, per così dire, di una soluzione negativa della prova, che la lotta aveva costituito: erano le forze, che nella lotta non avevano mai visto un mezzo per una trasfigurazione eroica e per una più alta coscienza morale, politica e nazionale, ma l’avevano invece vissuta come una necessità bruta, come un «inutile macello», come un male subito una volta, ma che opportune misure profilattiche dovevano impedire che di nuovo si ripetesse e disturbassero l’ideale – tanto utopico quanto materialistico – di un indisturbato benessere economico. Tale fu il senso del socialismo italiano dell’immediato dopoguerra: esso scherniva la «la bella guerra», fatta, secondo lui, solo per ingozzare ladri e fabbricanti di armi col sangue dei cittadini e dei lavoratori. Ma anche l’antico ambiente demoparlamentare, ora, non solo non si difendeva più, ma attaccava. (I, 91). «La guerra era stata, per la maggioranza del Parlamento e della borghesia dominante, o un terremoto, o una delittuosa catastrofe, le macerie della quale si dovevano seppellire, non prima di aver ammonito o punito coloro che l’avevano provocata».(I, 28).
Costoro, poiché nella vittoria dovevano vedere la loro sconfitta, si ingegnarono di trasformare la vittoria in sconfitta, per la loro vittoria. «E crearono l’ultimo capolavoro: la condanna e la liquidazione della guerra, con la quale essi avrebbero giustificato la propria opposizione già disonorata dalla vittoria, avrebbero colpito e punito gli interventisti e disarmato le passioni del socialismo rivoluzionario». (I, 75). Ed è così che il popolo italiano, non ancora rimesso dalla terribile prova che aveva superato, si trovò di fronte a questa angosciosa alternativa: «La guerra era stata un moto della natura brutale o un atto dello spirito italiano? E viveva perfino angosciosamente il dubbio: l’Italia è vittoriosa o sconfitta?» (I, 78).

I leaders degli stati vincitori alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 (da sinistra a destra: Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, Woodrow Wilson), che sancì la “vittoria mutilata” dell’Italia
In realtà, là dove la decisione non fu più affidata alle virtù eroiche della razza italiana, ma ad una inetta classe dirigente e ad una diplomazia impreparata, gli effetti positivi della vittoria sembrarono capovolgersi e svanire l’uno dopo l’altro e, all’interno, l’una crisi far seguito all’altra. Farinacci segue in tutte le sue fasi ciò che egli chiama efficacemente la «Caporetto diplomatica», le varie umiliazioni internazionali subite dall’Italia, dalla conferenza di pace alla rinuncia del Dodecaneso e dell’Anatolia, a Fiume, all’Albania. Opera loro, in parte, questo tracollo valse a rafforzare il giuoco disfattistico degli ambienti suaccennati. «E se l’egoismo delle maggiori potenze rendeva inutile agli Italiani la vittoria italiana; se la ignavia del governo, che aveva negato ai combattenti gli onori e i diritti, ora permetteva agli stranieri il tradimento di ogni più onesta speranza nazionale umana; non avevano forse ragione quelli che avevano maledetto la guerra?» (I, 50).
Ma anche in ciò, rileva giustamente Farinacci, si celava il significato segreto di una prova. «Bisognava che l’apparizione sinistra di una nuova Caporetto civile si rivelasse a coloro che non potevano distruggere nell’anima la gloria, che era nascosta e come sepolta, ma non era distrutta. Bisognava che i combattenti, più alti delle iniquità e della incomprensione disonesta che soffrivano da ogni parte, si lanciassero ancora a combattere e a difendere la Patria, che era la memoria di un valore che non voleva morire. Mussolini li guidò in questo combattimento» (I, 115).
E qui viene messo in risalto un punto fondamentale: un tale combattimento fu voluto senza promesse e senza illusioni, in nome di movimenti eroici e spirituali, irriducibili ai premi e agli appetiti e alle chimere di un materialismo pacifista. È questo il punto che differenzia le forze rivoluzionarie, che distacca nettamente, fin dalla prima ora, la volontà insurrezionale fascista da quella marxista. «Di fronte alla rivoluzione marxista della Russia, nel clima spirituale dell’Italia, anzi dell’Europa, dove il movente economico era il dogma teorico e pratico di vita, Mussolini osò dar principio ad una rivoluzione invocando le energie dello spirito, l’eroismo del grande popolo dei combattenti, l’onore della nuova aristocrazia delle trincee» (I, 119).
È per questo – e Farinacci ben lo mette in rilievo – che il fascismo fin dalla prima ora ebbe un suo contenuto positivo, esso non si esaurì nella mera «reazione» anti-bolscevica; giunto al Parlamento, delude tutti gli avversari della clique democratica, che credevano di averlo, con ciò, «imbottigliato» e «normalizzato» nella solita routine parlamentaristica; delude altresì coloro che pensavano di servirsene tatticamente, nel senso di uno strumento per proteggere «l’ordine», vale a dire il vecchio ordine burocratico, parlamentare, scettico e disfattista, che in realtà era solo un disordine malamente organizzato e privo di ogni autorità; proprio là dove l’antitesi socialista perde gradatamente di forza, il fascismo, invece di perderne anch’esso, come nel caso in cui esso fosse solo stato reazione, ne acquista, si completa, si dichiara tanto nemico della sovversione rossa che di un governo imbelle, la cui insufficienza si faceva gradatamente visibile agli occhi di tutti.
«La mèta finale della nostra marcia impetuosa è Roma. Bisogna spezzare il circolo chiuso della politica italiana; contro l’Italia vecchia, esaurita e rimbecillita noi organizziamo lo sforzo che la spingerà nella fossa» (III,13,14), dichiarò Mussolini, soggiungendo: «Il fascismo comincia a diventare incomodo. Si credeva che, esaurito il suo compito nella lotta antibolscevica, il fascismo si sarebbe volatilizzato. Si credeva che il fascismo “bloccando” durante le elezioni avrebbe finito col confondersi con gli affini – ed ecco invece il fascismo che si seleziona, si differenzia, si perfeziona in sua propria linea di autonomia spirituale e politica. Era comodo far credere alle turbe che il fascismo è legato agli agrari, ai capitalisti, ai parassiti, insomma. Quali sono gli alleati del fascismo? Non esistono. Il fascismo è solo. Completamente» (III, 54-55).
Segue nella seconda parte
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