Terza parte della recensione di Julius Evola della celebre “Storia della Rivoluzione Fascista” di Roberto Farinacci, pubblicata su “Vita Italiana” nel febbraio 1940. Evola termina la propria analisi critica, contestando le osservazioni di Farinacci circa la Germania prussiana e la Russia zarista, ma approvandone la concezione della “Storia”. Segue una postilla dello stesso Farinacci, che ringrazia il “camerata Evola” ma non si astiene dal controbattere alle critiche del barone.
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di Julius Evola
Tratto da “Vita Italiana”, febbraio 1940
segue dalla seconda parte
Chiarimenti di egual tipo richiedono, a nostro rispettoso parere, alcuni accenni di Farinacci riguardo l’antico regime in Russia e in Germania. Come si può parlare, ad esempio, da un punto di vista fascista, di una Germania «ancora dominata dalla Prussia illiberale e militaresca?» (II,157). Come si può dire che «la sconfitta del popolo tedesco fu il giudizio della storia … e condannò il suo regime e la sua ineducazione politica»? (I, 178-179). L’ineducazione politica e soprattutto la mancanza di psicologia e di abilità diplomatica dell’antica Germania può esser concessa: ma altrettanto vero è che proprio l’elemento prussiano costituì la spina dorsale della Germania, i sentimenti di lealismo dinastico e di fedeltà quasi «feudale» che esso diffuse costituirono le più alte virtù di quel popolo, fino al punto che ad esse si può ricondurre tutto quel che la stessa Germania di oggi, dal punto di vista di noi tradizionalisti, ha di positivo e di non equivoco, essendosi fatto punto di partenza di nuovi sviluppi.

La Famiglia imperiale dei Romanov intorno allo Zar Nicola II (1913)
Lo stesso si dica per alcuni accenni circa l’antico regime russo, oggetto di una sistematica opera di denigrazione e di diffamazione da parte della stampa liberale, giudeo-massonica e sovversiva dell’anteguerra. «il regime zarista aveva con la guerra tentato di risolvere e dissimulare tutti i problemi accumulati ed esasperati dalla sua sordità storica, dalla sua debilità mentale, dalla sua ignavia: la guerra rivelò i suoi difetti incolmabili… lo condannò e distrusse con l’obbedienza cieca dei suoi sudditi. I sudditi suoi lo colpirono a morte non perché gli furono ribelli, anzi, perché gli furono obbedienti, perché vivendo e morendo erano stati proprio così, come esso li aveva voluti, senza le virtù necessarie alla prova suprema della guerra» (I, 63). Nell’ultima guerra il regime zarista ha «fatto uccidere invano – sfidando la storia con temeraria cecità – per la sua salvezza tre milioni di contadini».
Non sappiamo se è colpa nostra, se questo inquadramento ci sembra poco chiaro e persuasivo. Noi vediamo un solo modo in cui lo zarismo ha sfidato la storia ed è corso verso il suicidio: nel suo dichiarare, esso, monarchia di diritto divino, la guerra ad altre monarchie di diritto divino, in più, senza esser sicuro delle proprie forze e senza tener conto del fermento rivoluzionario che serpeggiava nel suo organismo. Questa inaudita cecità si risolse ad esclusivo vantaggio della sovversione mondiale, del triangolo massonico, della stella d’Israele, della sub-umanità bolscevica e, in una parola, dell’antitradizione. Quanto alla schiavitù del popolo e alla feroce tirannide zarista, esse sono pure favole, qualora si consideri nell’insieme la precedente situazione russa. Al desiderio di aver delle terre Nicola II già andò incontro nell’accordare pieni poteri a Stolypin e questi avrebbe, con la sua riforma agraria, paralizzato per sempre i pretesti dei sobillatori rivoluzionari, se un ebreo non l’avesse assassinato. D’accordo sul carattere smidollato di certa nobiltà russa. Ma non si deve ad essa accollare tutta la colpa di non aver saputo educare il russo da guerriero. Farinacci stesso finisce col concederlo, là dove constata che, anche dopo la rivoluzione che mise fine all’odiato regime zarista, lo spettacolo della Russia fu quello di «una impotente e rassegnata barbarie» (II, 178). Dalla prima guerra perduta dai Sovieti contro la Polonia alle recenti vicende in Finlandia sorge la prova, che per razza, più che per ineducazione, la sostanza slava non è la più qualificata per prove risolventesi in un risveglio eroico: stile di eroi e di guerrieri ebbe piuttosto l’antica aristocrazia bojara, che, come è noto, non ha origine slava, ma nordico-vichingia, e fu proprio la razza di padroni che occorreva alla razza slava, per via della stessa natura di questa.
Una volta chiariti tutti questi punti, restano senz’altro eliminate tutte le possibilità di equivoco che possono sorgere da alcuni punti isolati dell’opera di Farinacci. Un problema fondamentale sussistente, ma di carattere già filosofico, sarebbe quello di vedere, che cosa è propriamente quella «Storia», a cui così spesso l’illustre uomo politico, come scrittore, si riferisce. Nella citazione, con cui si inizia il presente articolo, la «storia» si presenta quasi come il tribunale, in cui avviene una specie di «giudizio di Dio». Vien da pensare ad una estensione dell’antica dottrina della «prova delle armi»: la vittoria è una specie di segno mistico, di dimostrazione dell’approvazione divina e quindi di consacrazione trascendente. È la «mistica della vittoria», idea fondamentale dell’antica spiritualità eroica ariana, prima che essa prendesse la forma speciale, e alquanto unilaterale, che le fu propria nel Medioevo cavalleresco. Qui spirito e potenza si uniscono dunque in una sintesi superiore, superando il dualismo proprio a concezioni di ceppo soprattutto semitico.
Ma questa veduta mantiene tutta la sua antica purità ovvero si fonde con una specie di filosofia del fatto compiuto, nel quale ciò che si afferma di fatto, già con questo pretende di valere di diritto? A proposito delle vie nuove che nel mondo moderno si preannunciarono alla fine del secolo scorso, Farinacci scrive: «Sopra tutte le verità eterne e sui principii immortali trionfò la maestà della storia, che non serve, non servirà mai alle idee e alle opere dell’uomo, ma delle idee e delle opere dell’uomo si serve per la sua creazione infinita» (III, 197). E altrove (I, 61): «La storia divina agisce con cento stratagemmi e l’uomo serve alla storia con i pensieri suoi effimeri e necessari che egli crede eterni con fede provvidenziale». In queste precise espressioni essendovi il correttivo di quanto potrebbe lasciar intendere un altro passo, d’intonazione immanentistica (III, 257), la visione del mondo di Farinacci si conferma dunque in un preciso significato di spiritualità. Esiste un mondo di forze superindividuali, supercollettive, diciamo pure supermondane. Non esiste alcuna relazione fra di esse e i pensamenti effimeri, i miti, le utopie, gli interessi contingenti condizionati dalla materia e dalla pura cupidità, degli uomini. Tutto ciò è nebbia, è un mondo passivo, anche là dove esso crede di agire e di affermarsi. Chi agisce, restando su tal piano, più che agire, è un agito: la storia si serve dei suoi fini come di mezzi per mete ulteriori. Senonchè vi è una via che conduce oltre un tale modo d’essere, ed è la via eroica. Là dove la vita si porta sul limite che la separa dalla morte, là essa può ricevere la sua consacrazione suprema, là la vittoria non è semplice fatto umano, ma è anche rivelazione divina e, come tale, contrassegna un superiore diritto, quasi una sovrannaturale dignità: e si formano correnti nella storia, che hanno carattere fatidico.
Questo a noi sembra l’ultimo senso della veduta di Roberto Farinacci sui «valori supremi». E che essa meno si sia tratta da una speculazione astratta che da una esperienza vissuta, da una vita di combattimento, di attività inesauribile e di comando, in ciò ci sembra di riconoscere il sicuro contrassegno della sua profonda verità e, nel tempo stesso, ricordando tutto ciò che Farinacci ha significato pel fascismo, una fra le più precise testimonianze del carattere religioso, in senso superiore, delle forze che han condotto alla costruzione della nuova Italia imperiale, romana e mussoliniana.
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Postilla di Roberto Farinacci
Ringraziamo J. Evola per il suo magnifico studio critico sulla nostra Storia della Rivoluzione fascista.

Roberto Farinacci
La Vita Italiana ha fatto bene a pubblicarlo, anche in quelle parti dove, sia pure con garbo, egli mostra di dissentire da noi. Preferiamo una critica dura ad una lode superficiale e generica, perché quella contiene maggiore stima dell’autore e profondo amore ai problemi da lui discussi, nonostante la contraria apparenza. Ma proprio per questi stessi motivi noi dobbiamo al critico intelligente e paradossale (absit iniuria verbo) una breve risposta.
Dice Evola: «che il primo risveglio della razza italiana dopo la caduta di Roma antica sia rappresentato dai Comuni, questa è forse l’affermazione più dubbia che si ritrovi in tutta l’opera… La verità è invece che all’epoca dei Comuni era assurdo parlare di un sentimento nazionale alla moderna. Italiani combatterono tanto da parte dei Comuni che da quella dell’Imperatore. La lotta dei Comuni non fu quella di una Nazione contro lo “straniero”, ma quella di un principio contro un altro: da un lato stava la civiltà qualitativa ed aristocratica della feudalità ghibellina e dell’Impero, esaltata da Dante, dall’altro quella della “gente nova dai subiti guadagni” per usare l’espressione dantesca, di una civiltà mercantile e borghese sconsacrata, usurpante il diritto di portare le armi».
Che alla lotta dei Comuni italiani non siano da prestare i sentimenti e le idee e gli scopi del Risorgimento, è fuori discussione; gli stessi Comuni vittoriosi non disconobbero mai l’autorità dell’Impero, anzi, nella compagine dell’Impero, si disciplinarono pur sostituendo i signori feudali, domati o spazzati via. Ma, a prescindere dalla mitologia dei sentimenti e della fenomenologia degli interessi, è parimenti indiscutibile che l’Italia, non più provincia dell’Impero, ma popolo autonomo e creatore, e la civiltà italiana, che segnò una nuova fase della storia europea, si formarono proprio per virtù di quella «civiltà mercantile e borghese», a cui l’Evola allude con evidente rancore e dura condanna. Insomma il popolo italiano, che è una formazione storica, la cui fase originale procede eroicamente e sempre più luminosamente fra il 1000 ed il 1500, si dovrebbe, secondo J. Evola, condannare perché procurò, con la sua vita, la morte del regime imperiale, ghibellino, feudale. Caro Evola, il monopolio della divinità non ce l’hanno nessun istituto, nessuna classe, nessuna persona, nessuna idea, ma si lo spirito eroico dell’uomo, tutto lo spirito che solo è eterno e creatore. Non bisogna guardare alle cose operate, ma a colui che opera.
E che si direbbe di un professore di scienze naturali che sentisse rancore per il collo – troppo lungo – della giraffa, e non potendolo diminuire decidesse di espungerlo dalla natura? Poi altra cosa è la visione storica, altro è il dovere o la risolutezza intollerante dell’azione! Ed è assai sospettabile colui che si ponga a giudicare – non a comprendere – la storia e a distribuire condanne. Tanto varrebbe condannare Dio stesso, o mettersi in ginocchio a idolatrare una delle forme infinite create dagli uomini: questa idolatria si che sarebbe diabolica! Quanto a Dante, è bene che non lo disturbiamo, né come Poeta, che qui non c’entra, né come teologo della politica. Se abbiano avuto ragione Firenze e Brescia che resistettero all’Imperatore Arrigo, in cui vedevano il nemico tedesco, o Dante che vedeva in lui la vivente autorità della Monarchia universale, noi non possiamo decidere che rimettendoci alla storia; e, d’altra parte, noi, alla Monarchia universale, non crediamo più, chè non crediamo, come Dante, la Monarchia universale necessaria alla salute dell’anima.
Le stesse considerazioni dobbiamo fare a proposito di un altro punto del dissenso: «sarebbe difficile – afferma l’Evola – riconoscere nel Risorgimento un antecedente del Fascismo. Una tale ideologia è in realtà imparentata nel modo più stretto con quella demo-liberale e soprattutto demo-massonica». È vero che il simpatico nostro critico diminuisce e quasi ritratta qeusto giudizio col riconoscere che, in fondo, «il Risorgimento valse a destare energie eroiche e nazionali». E noi ricordiamo e confermiamo qui che Giuseppe Mazzini è stato uno dei più forti oppositori della rivoluzione francese e della concezione e della morale giacobina, di cui, pur riconoscendo la funzione negativa, giudicava che proprio questa negazione non serve da sola alla storia, né alla vita di un popolo, né alla missione che all’Italia egli imponeva, perché fosse giustificato lo stesso moto della indipendenza e della unità. E se l’apostolo della rivoluzione italiana restò fedele sempre a questo principio, e il nostro critico non lo può negare, la discussione è finita, chè tanto più i moderati liberali ed i neo-guelfi furono avversi ai principi demo-massonici.
Quanto all’«aspetto di lotta specifica contro l’Austria e di guerra combattuta per distruggere l’Austria», è innegabile che fra tutte le vie aperte alla nostra politica del periodo della neutralità, quella presa risolutamente dagli interventisti era la buona (a prescindere dalle ipotesi romanzesche che lo stesso Evola par che respinga): nessun’altra energia era a disposizione degli interventisti per condurre l’Italia alla guerra necessaria, fuori di quella che a loro veniva dall’età del Risorgimento, anche se essi fossero stati, e non lo erano, di idee e di sentimenti diversi. E che poi il Fascismo italiano debba riconoscere nel defunto impero asburghese l’erede sacro «della idea non antinazionale ma super-nazionale del Sacro Romano Impero» e battersi al petto; o che debba esplodere in un dirotto pianto perché lo Zarismo «monarchia di diritto divino» fu annientato; non non crediamo. Che il Dio della storia abbia pesato l’impero danubiano, cioè il dominio degli Absburgo (altro che il Sacro Romano Impero!), e l’abbia trovato leggero; che abbia condannato l’impero zarista incapace di educare il popolo russo, anzi i molti popoli che male vegetavano fra la Vistola e l’Oceano Pacifico; noi saremmo tentati se mai al tripudio, anziché al pianto; se non fossimo propensi ad un altro atteggiamento che abbiamo cercato di conservare con religiosa disciplina: comprendere serenamente, e fermamente fare il saluto alla divinità.
Un’ultima considerazione. Non tema, no, il camerata Evola, che noi per questo modo di pensare, ci macchiamo della colpa di inchinarci al fatto compiuto. Noi non ci permettiamo di rifare né la natura, né la storia. E nella storia sempre presente che gli uomini vivono non c’è solo il passato, sì anche il futuro, non solo quello che è stato fatto, ma quello che si fa e si deve fare. Idolatria è quella di adorare il feticcio delle proprie predilezioni e piangere e disperarsi quando il feticcio sia convertito in polvere.
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