Torniamo sul tema dell’ideale classico contrapposto al mero classicismo, con un secondo articolo di Evola pubblicato su “Il Conciliatore” nel 1971, cioè circa trent’anni dopo quello presentato alcuni giorni fa, uscito su “La Stampa” in piena seconda guerra mondiale. Si tratta di uno degli innumerevoli casi in cui il barone ripropose più volte un determinato tema, recuperando stralci da suoi articoli precedenti e costruendone così altri con contenuti in parte diversi, rivisitati, aggiornati, ampliati. In questo caso, rispetto al primo articolo, Evola introduce un confronto tra “classico” e “romantico”, ed un approfondimento sul concetto di “finito” (ciò che ha forma compiuta) e di “infinito” (ciò che è privo di forma), quest’ultimo da intendersi ora negativamente, laddove si presenti come frutto dell’incapacità di darsi una forma (informalità in senso stretto), un limite; ora positivamente, laddove si manifesti invece come “segno di un potere capace di imporre una forma a sé stesso“, forma in cui la smisuratezza dell’infinito trova allora un’armonica, misurata, compiuta manifestazione. Poi Evola traspone il discorso dal mondo dell’arte e della letteratura a quello del dominio etico, dei comportamenti, dello stile di vita, riproponendo passi del precedente articolo.
Per una completezza filologica, a proposito di quell’opera di continuo rimaneggiamento e recupero dei propri scritti di cui si parlava, segnaliamo che Evola espose ancora il tema in oggetto in un terzo articolo uscito sul “Roma” il 30 maggio 1973, dal titolo “Riscoperta del classicismo”, in cui furono riproposte sinteticamente le argomentazioni che ritroviamo nei due articoli pubblicati.
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di Julius Evola
Tratto da “Il Conciliatore”, 3 marzo 1971
In queste brevi note vorremmo accennare ad un aspetto particolare dell’ideale classico, che forse non sarà privo di interesse per il contesto speciale nel quale lo inseriremo.

La tensione verso l’assoluto ed il malinconico senso di struggimento (Sehnsucht) tipici dell’arte romantica, soprattutto nordica, trovarono esponente paradigmatico nel grande artista tedesco Caspar David Friedrich (nell’immagine, “Klosterfriedhof im Schnee”, “Cimitero del Monastero nella neve”, 1810)
Come si sa, in genere la nozione di «classico» fa parte della storia dell’arte e della letteratura, e si suole definire «classico» in opposto al «romantico». «Classico» sarebbe ciò che è oggettivo (Goethe), «romantico» ciò che è soggettivo. Il «classico» starebbe nel segno della «forma» e dell’armonia formale, il «romantico» sotto quello dell’indefinito, dell’irrazionale, del dinamico, di ciò che trascende la forma per manifestare le potenze più profonde dell’anima ed anche della realtà. Così si potrebbero mettere l’uno e l’altro, rispettivamente, in relazione col l’«apollineo» e il «dionisiaco» quali li ha interpretati Nietzsche nella sua La nascita della tragedia prendendo le mosse dalle categorie filosofiche di Schopenhauer, l’«apollineo» venendo associato all’aspetto «rappresentazione» (forma esteriore, imagine), il «dionisiaco» all’aspetto «volontà» (Wille nel senso schopenhaueriano, che è propriamente volontà di vivere, impulso, fondo irrazionale ed anche tragico e dilacerato dell’essere), della realtà. Pertanto, l’artista «apollineo» potrebbe venire associato al classico, quello «dionisiaco» al romantico.
Però tutto questo richiede delle precisazioni e rettificazioni. In primo luogo, nel campo delle creazioni si deve badare a non considerare le cose in termini astratti, prendendo quel che ha una forma perfetta e ben definita in sé e per sé, invece di vedervi il risultato di forze che la volontà ha organizzato e a cui ha imposto il limite (il «limite creativo», per riferirsi ancora a Goethe): tanto che la «forma» appare solo come segno e simbolo di questo potere creatore che si porta proprio sul fondo delle forze profonde, elementari, se si vuole «dionisiache». Proprio Nietzsche quando nella Volontà di potenza ha parlato del «grande stile» in questi termini:
«La grandezza di un artista la si misura non dai bei sentimenti che suscita, solo delle femminette possono pensare una cosa simile, ma dal grado in cui si avvicina al grande stile. Questo stile ha in comune con la grande passione il disdegnare di piacere; esso dimentica di persuadere, esso vuole…farsi signore del caos che si è, costringere il proprio caos a divenire forma, matematica, legge, ecco la grande ambizione»,

Friedrich Nietzsche (1844-1900)
quando Nietzsche ha parlato in tali termini del «grande stile», in fondo ha indicato proprio la situazione da cui nasce una creazione «classica».
Al che si può associare una seconda considerazione. Il romanticismo vuole attribuirsi, di contro al «classico», un impulso verso l’infinito, il trascendente, il quale non tollera il limite, la forma, che dunque può venire adombrato là dove limite e forma sono violati (l’espressionismo ha realizzato in modo tipico e liminale tale esigenza). Ma qui vi è un equivoco, il quale si riflette anche nell’interpretazione corrente dell’antico mondo classico, specie ellenico. La visione ellenica della vita partiva dall’opposizione fra ciò che ha un limite (péras) e ciò che è privo di limite (àpeiron), i due termini potendo esser fatti corrispondere dunque, in un certo senso, al «finito» e all’«infinito». Il valore venne prevalentemente attribuito al primo termine, facendone un ideale (l’ideale classico). L’«infinito» nel senso di àpeiron, di «privo di limite», fu invece inteso come qualcosa di negativo (anche nella speculazione greca, se si prescinde in essa da alcune tendenze misteriosofiche). Ma ciò, in quanto nell’«infinito» si vedeva ciò che non ha forma per non avere il potere di darsi una forma; nel finito, invece, il segno di un potere capace di imporre una forma a se stesso, secondo quanto si disse: ciò «che contiene in magnifica misura la smisuratezza dello stesso infinito» (come ebbe a scrivere O. Braun).
Abbiamo dunque due concezioni dell’infinito: l’informe da una parte, dall’altra l’infinito che manifesta il proprio potere nella forma e nel limite, il quale non lo contraddice (come vuole la concezione romantica e come, sul piano teologico, lo vuole l’assioma spinoziano: omnis determinatio negatio est, «ogni determinazione è una negazione») ma anzi lo testimonia. È per questo che nell’antichità classica la forma ha alcunchè di magico o di magnetico, per nulla di morto, a differenza di quanto è proprio non al «classico» ma al «classicistico», che riguarda quel che si riferisce ad una forma stereotipata, vuota e inautentica. E si può capire Platone quando parla dell’estasi che può provocare la contemplazione delle «forme pure».
Ciò può bastare per accusare la concezione accademica del «classico» la quale riguarda effettivamente soltanto delle esteriorità, mentre l’intima connessione fra forma, stile e potenza elementare conduce a revisioni d’ordine anche storico e esistenziale. Essa avvia perfino verso qualcosa di più essenziale di tutto quel che è estetismo in genere, «mondo delle lettere e delle arti», quindi, in buona misura, a ciò con cui «umanisticamente» si vuole identificare la «civiltà»; mentre si tratta di alcunchè di sfaldato e di depotenziato.

Il Doriforo di Policleto (copia romana), trionfo classico della forma e della proporzione
È così che si può passare anche al dominio etico. In effetti, in base a quanto si è detto, il classico lo si può riferire parimenti ad uno stile e ad una formazione di vita, ad una tradizione in quanto forza formatrice silenziosa e elementare, rispetto a cui la stessa creatività estetica e il «mondo del pensiero» possono apparire come alcunchè di secondario e perfino di contingente e di soggettivistico, se la loro radice non riporta a una realtà più profonda. Se il vero elemento classico è l’amore per la forma, la forma può essere intesa e realizzata anche e appunto sul piano di forze pure come ethos, stile di vita dominato, chiaro, libero da vane agitazioni, nemico di tutto ciò che è inessenziale, particolaristico, legato alla semplice impulsività. L’impersonalità attiva, conformemente alla quale l’opera e l’azione valgono più della «persona» nella sua particolarità e accidentalità, può rientrare nella stessa linea. In questa prospettiva, la disciplina è un valore; la fermezza e la misurata dignità sono un valore; la legge inattenuata e assoluta è un valore. E un valore è, al limite, l’ideale «olimpico», quello di una chiarità, di un ordine, di una gerarchia, di un kosmos nel senso originario greco, sovranità che ha risolto il caos e sovrasta l’elemento puramente umano, come la chiarità fredda e disincarnata delle vette sovrasta le nebbie e le luci incerte e confuse delle valli.
Storicamente, a parte l’Ellade dorica, la prima romanità, quella che non aveva ancora conosciuto l’ellenizzazione in senso estetizzante e l’asiatizzazione mentre come fattore di alterazione aveva solo l’influenza etrusco-sabina, ci dice della presenza e della potenza di una componente «classica» nel senso or ora indicato. Classici sono i tratti dello stile, della virtus, della tenuta interiore che le tradizioni romane sempre riferirono ai maiores nostri. Sono gli stessi tratti, peraltro, per cui, secondo una testimonianza di Livio spesso citata, ai primi ambasciatori greci che avevano creduto di trovarvi una accolta di «barbari», il Senato romano apparve invece come un «concilio di re». Classici sono i tratti del più antico diritto patrizio romano. Classici sono, di nuovo, gli elementi fondamentali del primo culto romano, scevro di misticismi e di sentimentalità devozionale e anelante, non bisognoso di immagini mitologiche il divino essendo concepito e direttamente percepito sotto specie di numen, di potere, presso al sistema oggettivo e impersonale dei rituali. Classica è la volontà romana di forma intesa a creare meno statue e opere d’arte che non uomini, sul piano etico, politico e eroico così come su quello sacrale: sì che il flamen dialis, questa figura tipicamente romana di sacerdote, intimamente connessa con l’idea stessa dello Stato romano, potè apparire come una «statua viva della divinità olimpica». Classica è, infine, la volontà umana di imperium quale lo stesso Virgilio la intese: giacché se son ben note le parole virgiliane: tu regere imperio populos Romane memento, men noto è il senso complessivo di questo testo: reggere con l’imperio i popoli, questo, o Romano, ricordai, sia il tuo ideale, non le arti, non le lettere, tale è l’idea complessiva del passo virgiliano, perfettamente aderente all’idea antiumanistica, eroica e severamente etica del periodo catoniano.

“Classicismo” e architettura funzionale: il celebre ingresso monumentale del Rettorato dell’Università La Sapienza di Roma, opera di Marcello Piacentini
Questi sono dunque gli aspetti o tratti particolari dell’ideale «classico» che ci siamo proposti di indicare. Non è facile scoprirli anzitutto perché si legano alle origini, quando le forze erano ancora in uno stato di raccolta intensità, tanto da poter anche non dar luogo ad una ricchezza e varietà di forme espressive valutabili in termini umanistici e estetici. Specie se lo sguardo si porta anche su aree non occidentali, può anzi verificarsi il paradosso di un incontro del «classico», sempre nella speciale accezione da noi indicata, nel Medioevo romano-germanico (in opposto al Rinascimento e all’Umanismo): in quel Medioevo che invece si è voluto interpretare in chiave «romantica» (nel romanticismo tedesco).
L’ostacolo principale per una ricerca del genere lo si incontra in particolare nel campo della storia delle arti, sotto le specie del «classicismo» come una assunzione stereotipata, esterioristica, accademica. Vale poi appena rilevare che il clima della civiltà ultima è quanto mai lontano dal propriziare una comprensione del «classico», nel senso più ampio del termine. In un certo modo, se ne potrebbe trovare, oggi, in settori particolari, soltanto la parodia o contraffazione, come quando, agli inizi della cosiddetta architettura funzionale, si potè parlare di un «nuovo doricismo», si tratta tuttavia di forme che stanno assolutamente sotto il segno delle cerebralità, dell’astrazione, e che sono state rapidamente asservite a istanze utilitarie, l’«elementare» manifestandosi talvolta nelle apparenze, ma mancando del tutto quel che è proprio alla nuda forza formatrice originaria. E come controparte, tutto quanto oggi appare «oggettivo» e condannante all’irrilevanza quel che è individuale e particolaristico, è privo di anima, mentre in una umanità senza centro, come l’attuale, nulla è più lontano dalle manifestazioni di quel «classico» come ethos e chiara forma interiore di cui qui abbiamo cercato di indicare sommariamente il senso.
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