L’Italietta democratica si prepara, per l’ennesima volta, alla farsa delle urne: nel caso specifico, si tratta del referendum confermativo sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi. Al di là del profondo carattere disorganico, antigerarchico e sovversivo dei sistemi politici demo-liberali, massificati, retorici, populisti (questi sì, realmente…), è di tutta evidenza che un pacchetto di modifiche come quello sottoposto gli italiani dovrebbe essere rimesso alla valutazione ed allo studio di tecnici costituzionalisti, e non di certo al giudizio inevitabilmente sconclusionato e incompetente di quel totem chiamato “popolo”, massa disarticolata e scomposta, in cui in nome della cosiddetta uguaglianza si azzerano le differenze, le gerarchie, le competenze e la qualità, destinate a soccombere sotto il greve, insostenibile peso della quantità, dell’anonimato, del livellamento orizzontale. Ma è proprio questo l’obiettivo dei veri detentori del potere che, dietro il paravento della “democrazia”, della “libertà”, del “suffragio universale” e via dicendo, muovono nell’ombra le loro pedine e realizzano i loro sordidi piani di destabilizzazione.
Ci è sembrato pertanto molto significativo cominciare proprio alla vigilia di quest’evento a proporre ai nostri lettori un pacchetto di articoli in cui Evola dapprima analizza la caduta progressiva dell’idea di Stato nella storia, per poi indicare il percorso che andrebbe seguito per una ricostruzione della medesima in senso Tradizionale, e quindi con delle salde fondamenta spirituali.
Buon referendum a tutti …
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di Julius Evola
(Tratto da Lo Stato, V, 2, febbraio 1934, pp. 113-133)
Per potere studiare non nei suoi aspetti esteriori e consequenziali, bensì nelle sue cause profonde e in tutta la sua portata, il processo di caduta che ha subito nei tempi ultimi l’idea di Stato, ci è d’uopo prender per punto di riferimento una visione generale della storia che ha per centro la constatazione di un fenomeno fondamentale: il fenomeno della regressione delle caste. E’ una visione, questa, importante, per la sua doppia caratteristica, di esser attuale da un lato, e simultaneamente tradizionale.
Essa è attuale, inquantoché sembra corrispondervi una sensazione più o meno precisa che oggi si è preannunciata significativamente per vie diverse e quasi contemporaneamente in scrittori di diverse nazioni. Già la dottrina del Pareto circa la «circolazione delle élites» contiene in germe questa concezione. E mentre noi stessi l’accennavamo nello specifico riferimento allo schema delle caste antiche in un nostro libro di battaglia (Imperialismo Pagano), in forma più definitiva e sistematica essa è esposta in Francia da René Guénon [1] ed in Germania, sia pure con esagerazioni estremistiche, dal Berl [2]. Infine, è significativo che non diversa concezione oggi ha fornito ad un’opera animata da schietto spirito «squadrista» le premesse per denunciare le «vigliaccherie del secolo XX» [3].
Ma vi è un secondo e più generico titolo di attualità per il nostro argomento, dovuto al nuovo «clima» spirituale subentrato, in tema di filosofia della cultura, ai grevi miti positivistici di ieri.
Come si intuisce facilmente, la nozione di una regressione delle caste ha presupposti nettamente antitetici rispetto a quelli delle ideologie progressistiche ed evoluzionistiche che la mentalità razionalistico-giacobina ha introdotti fin in sede di scienza e di metodologia storica, elevando a verità assoluta quella che, in fondo, solo saprebbe convenire ad un parvenu: la verità, che il superiore deriva dall’inferiore, la civiltà dalla barbarie, l’uomo dalla bestia, e così via, fino a sboccare nei miti dell’economia marxista e nei vangeli sovietici del «messianismo tecnico». In parte sotto la spinta di tragiche esperienze, che hanno dissipato i miraggi di un ingenuo ottimismo, in parte per un effettivo rivolgimento interiore, oggi fra le forze più consapevoli e rivoluzionarie simili superstizioni evoluzionistiche, almeno nei loro aspetti più unilaterali e pretenziosi, possono considerarsi liquidate. Con il che si affaccia virtualmente la possibilità di riconoscere una diversa, opposta concezione della storia, che è nuova, ma ad un tempo remota, «tradizionale», e di cui la dottrina della regressione delle caste nelle sue relazioni con la caduta dell’idea di Stato è sicuramente una delle espressioni fondamentali.
Sta invero di fatto che al luogo del mito recente, materialistico e «democratico», dell’evoluzione, le più grandi civiltà del passato avevano concordemente riconosciuto il diritto e la verità dell’opposta concezione, che analogicamente possiamo chiamare «aristocratica», affermante invece la nobiltà delle origini e constatante, nello scorrere dei tempi ultimi, più una erosione, una alterazione ed una caduta, che non una qualunque acquisizione di valori veramente superiori. Ma qui, per non avere l’aria di passare da una unilateralezza ad un’altra, bisogna anche rilevare che nelle concezioni tradizionali cui accenniamo il concetto di una involuzione quasi sempre figura solo come momento di una più vasta concezione «ciclica»; concezione, che, sia pure dilettantescamente ed in un orizzonte assai più ristretto e ipotetico, ha fatto oggi riapparizione nelle teorie circa le fasi aurorali ascendenti e le fasi crepuscolari discendenti del «ciclo» delle varie civiltà, come quelle di uno Spengler, di un Frobenius o di un Ligeti.
Questa osservazione non è priva d’importanza anche in relazione all’intenzione stessa del presente scritto. Infatti noi qui non ti intendiamo affatto sottolineare tendenziosamente vedute, quali per caso converrebbero a «sinistri profeti del futuro»: intendiamo invece precisare oggettivamente alcuni degli aspetti della storia della politica, che si impongono non appena ci si metta da un punto di vista superiore. E se per tal via avremo da constatare fenomeni negativi nella società e nelle formazioni politiche dei tempi ultimi, in ciò non intendiamo tanto riconoscere un destino, quanto individuare i tratti di quel che si deve anzitutto realisticamente e virilmente riconoscere per procedere poi ad una eventuale, vera ricostruzione. Così il nostro studio si dividerà in tre parti.
Anzitutto considereremo gli antecedenti «tradizionali» della dottrina in parola, consistenti essenzialmente nella «dottrina delle quattro età». Passeremo poi ad esaminare lo schema dal quale trae il suo senso specifico l’idea della regressione delle caste, per poter individuare storicamente tale idea sì da considerare in tutti i suoi gradi ed aspetti la progressiva caduta dell’idea di Stato. Infine, svolgeremo delle considerazioni in ordine agli elementi che la concezione precisata ci offrirà sia per la comprensione generale dei fenomeni politico-sociali più caratteristici ai nostri giorni, sia per la determinazione delle vie atte a condurre verso un migliore avvenire europeo, verso la ricostruzione dell’idea di Stato.
1. – La sensazione tradizionale di un processo involutivo in atto di realizzarsi nei tempi ultimi, processo per il quale il termine più caratteristico è quello èddico di «ragnarökkr» (oscuramento del divino), lungi dal restare vaga ed incorporea, determinò una dottrina organicamente articolata, ritrovantesi un po’ dappertutto con larghissimo e strano margine di uniformità: la dottrina delle quattro età. Un processo di decadenza spirituale graduale attraverso quattro cicli o «generazioni» —in questi termini fu tradizionalmente concepito il senso della storia. La forma più nota di tale dottrina è quella propria alla tradizione greco-romana.
Esiodo parla appunto di quattro ere, contrassegnate simbolicamente dai quattro metalli, oro, argento, bronzo e ferro, lungo le quali da una vita “simile a quella degli dèi” l’umanità sarebbe passata a forme di una società sempre più dominata dall’empietà, dalla violenza e dall’ingiustizia [4]. La tradizione indoariana ha la stessa dottrina nei termini di quattro cicli, l’ultimo dei quali ha il nome significativo di «età oscura» – kalî yuga – insieme all’immagine del venir meno, in ciascuno di essi, via via di ciascuno dei quattro «piedi» o sostegni del Toro, simboleggiante il dharma, cioè la legge tradizionale d’origine non umana, la quale in via particolare è quella da cui ciascun essere trae il suo giusto luogo nella gerarchia sociale definita dalle caste [5]. La concezione iranica è affine a quella indoariana e ellenica, e lo stesso si dica per quella caldaica. Per quanto in una trasposizione particolare, la stessa idea trova eco nella tradizione ebraica, nel profetismo parlandosi di una statua splendente, la cui testa è d’oro, il cui petto e le cui braccia sono d’argento, il ventre di rame e i piedi di ferro e di argilla: statua, che nelle sue parti così divise (e tale divisione ha — come vedremo singolare corrispondenza con quella che nell’uomo primordiale, secondo la tradizione vèdica, determina le quattro principali caste) rappresenta quattro «regni» che si succederanno a partir da quello «aureo» del «re dei re ricevente dal dio del cielo, potenza, forza e gloria» [6].

“Asgardsreien” di Peter Nicolai Arbo, 1872 (dettaglio) – rappresentazione della cd. “Caccia selvaggia”, prefigurazione simbolica della battaglia finale del Ragnarökkr (cliccare per ingrandire)
Non solo in Egitto si riproduce un tale motivo con certe varianti che qui non è il caso di esaminare e spiegare, ma perfino oltre l’Oceano, nelle antiche tradizioni imperiali azteche. La relazione fra la dottrina delle quattro età — che in una certa misura si proietta nel mito o fra le penombre della più alta preistoria — e la dottrina della regressione delle caste e della relativa caduta dell’idea di Stato si stabilisce per una doppia via. Anzitutto per questo: per la concezione stessa che del tempo e dello sviluppo degli eventi nel tempo aveva l’uomo tradizionale. Per l’uomo tradizionale il tempo non scorreva uniformemente e indefinitamente, ma si fratturava in cicli o periodi, ciascun punto dei quali aveva una sua individualità costituendo, insieme con gli altri, la completezza organica di un tutto. Per tal via, la durata cronologica di un ciclo poteva anche esser labile. Periodi quantitativamente diseguali potevano esser assimilati, una volta che ciascuno di essi riproducesse tutti i momenti tipici di un ciclo. Su questa base, valeva tradizionalmente una corrispondenza analogica fra grandi cicli e piccoli cicli, che permetteva di considerare uno stesso ritmo, per così dire, su ottave di diversa ampiezza [7]. E così che esistono delle effettive corrispondenze fra il ritmo «quattro» quale figura in universale a chiave della dottrina delle quattro età e il ritmo «quattro» quale figura in un ambito più ristretto, più concreto e più storico, in relazione alla discesa progressiva dell’autorità politica dall’una all’altra delle quattro antiche caste. E i punti caratteristici che nella prima dottrina si presentano come miti, epperò superstoricamente, possono per ciò stesso introdurci nel senso di rivolgimenti storici concreti analogicamente corrispondenti.
La seconda giustificazione del nostro metter in relazione le due dottrine sta in questo: che nella gerarchia delle quattro caste principali, quale fu tradizionalmente concepita, troviamo fissati, per così dire, in immobile coesistenza, come strati sovrapposti del tutto sociale, i valori e le forze che, attraverso la dinamica di un divenire storico, sia pure regressivo, avrebbero preso a dominare via via in ciascuno dei quattro grandi periodi. Noi qui non possiamo inoltrarci in una ricerca che già è stata eseguita in tutta la sua ampiezza altrove [8]. Ci limiteremo a rilevare che nei riguardi della suprema delle caste, quella che corrisponde alle stirpi dei re divini, e nel concetto stesso della funzione da questi incarnata, dovunque essa si sia manifestata, sono ricorrenti espressioni, simboli e figurazioni che corrispondono sempre e in modo uniforme a quelle che, nel mito, vengono riferite alle generazioni del primo ciclo, dell’età aurea.
Se noi abbiamo già visto che nella tradizione ebraica la prima epoca, aurea, entra direttamente in relazione col concetto supremo della regalità – nelle tradizioni classiche è significativa la relazione leggendaria fra il dio di tale èra, e Giano, poiché questi in un suo aspetto valse come simbolo per una funzione simultaneamente regale e pontifìcale; nella tradizione indo-ariana l’età dell’oro è quella in cui la funzione regale, interamente desta, opera secondo verità e giustizia, mentre l’età oscura è quella in cui essa «dorme» [9]; nella tradizione egizia la prima dinastia è quella stessa che ha gli attributi dei re solari osirificati, «signori delle due corone», concepiti come esseri trascendenti – e fin nelle tradizioni dell’ellenismo iranizzato i sovrani assumevano non di rado le insegne simboliche di Apollo-Mithra, concepito come il re solare di «coloro dell’età aurea». Per contro, sarebbe facile mostrare che nelle epoche ultime, nell’età oscura, o del ferro, o del «lupo», viene direttamente o indirettamente figurato un predominio di quelle forze «infere», promiscue, legate alla materia e al lavoro come ad un oscuro destino — pόnos — alle quali nella gerarchia tradizionale corrispondeva la ultima delle caste («l’età oscura» — viene detto esplicitamente [10] — è quella contrassegnata dall’avvento al potere della casta dei servi, cioè del puro dèmos). Mentre, per una epoca intermedia, sia il suo riferimento all’epoca di «semidei» come «eroi» (Ellade), o a quella in cui il re ha per caratteristica solo «l’azione energica» (India), o in cui appaiono forze titaniche in rivolta (Edda, Bibbia) ci rimanda più o meno direttamente al principio proprio alla casta dei «guerrieri».
E tanto basta per quel che concerne l’inquadramento «tradizionale» di quella veduta della storia, che adesso passeremo a considerare nei suoi tratti essenziali.
2. – Come premessa, siamo naturalmente tenuti a precisare e a giustificare ciò che abbiamo chiamato «gerarchia tradizionale» e la nozione stessa di casta. L’idea-base, è quella di uno Stato non pure come organismo, ma altresì come organismo spiritualizzato, tale da innalzare per gradi il singolo da una vita naturalistica prepersonale ad una vita supernaturale e superpersonale attraverso un sistema di «partecipazioni» e di subordinazioni atte a ricondurre costantemente ogni classe di esseri ed ogni forma di attività ad un unico asse centrale. Si tratta dunque di una gerarchia politico-sociale con fondamento essenzialmente spirituale, nella quale ciascuna casta o classe corrispondeva ad una determinata forma tipica di attività e ad una funzione ben determinata nel tutto.
Questo significato prese particolare risalto nella concezione indoariana secondo la quale, di là delle quattro principali caste, quelle superiori di fronte a quelle servili erano concepite come l’elemento «divino» di «coloro che sono rinati» — dvija — culminante in «coloro che sono simili al sole», di contro all’elemento «demonico» — asurya — degli esseri «oscuri» – krshna [11]. Per tal via, come premessa uno degli autori moderni citati al principio, il Berl [12], parte da una concezione dinamico-antagonista della gerarchia tradizionale, quasi di lotta fra cosmos e caos: l’aristocrazia sacrale incorporerebbe il «divino» nella sua funzione olimpica di ordine, e la massa il «demonico» (non nel senso morale cristiano, ma nel senso di puro elemento naturalistico): l’uno tenderebbe a trascinare con sé l’altro, e ciascuna delle forme intermedie corrisponderebbe ad una data mescolanza dei due opposti elementi. Quanto poi alla ragione della quadripartizione — quattro principali caste — essa procede dall’analogia con lo stesso organismo umano. Così per esempio nella tradizione vèdica [13] le quattro caste sono fatte corrispondere a quattro parti fondamentali del «corpo» dell’uomo primordiale — e a tutti sono note le riprese di tali analogie per la giustificazione organica dello Stato, che si ebbero sia in Grecia (Platone) che a Roma. In realtà, ogni organismo superiore presenta in connessione gerarchica quattro funzioni distinte, seppure solidali: al limite inferiore vi sono le energie indifferenziate prepersonali della vitalità pura. Su di esse però già domina il sistema degli scambi vitali e dell’economia generale organica (sistema della vita vegetativa).

Arjuna, modello di Kshatriya (guerriero) del sistema gerarchico dell’India tradizionale, sul carro (corpo) guidato da Krsna, una delle manifestazioni dell’Essere Supremo (Spirito), che domina i cavalli (le forze dell’anima e dei sensi) (Bhagavadgītā)
A questo sistema, peraltro, è sopraordinata la volontà, come ciò che muove e dirige il corpo come tutto nello spazio e nel tempo. Infine, al sommo, una potenza di libertà e di intelletto, lo spirito quale principio sovrannaturale dell’umana personalità. Esattamente questa è, trasposta in termini di gerarchia sociale, la ragione analogica delle quattro antiche caste indoariane: in corrispondenza — rispettivamente — a vitalità subpersonale, economia organica, volontà e spiritualità, vi erano dunque le quattro caste distinte dei servi — çudra — della borghesia abbiente, agricola, commerciante e (nei limiti antichi) industriale — vaiçya — dell’aristocrazia guerriera — kshatriya — e, infine, di una aristocrazia puramente spirituale che forniva i «re divini», o le nature virilmente sacerdotali, gli «iniziati solari» i quali, concepiti come «più che uomini», apparivano agli occhi di tutti come coloro che irrepugnabilmente e più di ogni altro avevano il diritto legittimo al comando e la dignità dei Capi: e di quest’ultima casta i brâhmana, in un certo senso (diremo poi perché solo «in un certo senso»), furono i rappresentanti nell’antica India ariana.
Chiamiamo «tradizionale», e non semplicemente indù, questa quadripartizione, perché essa effettivamente si lascia ritrovare, in forma più o meno completa, in varie altre civiltà: Egitto, Persia, Ellade (in una certa misura), Messico, fino a giungere al nostro Medioevo, che ci mostra parimenti la quadripartizione sociale supernazionale in servi, borghesia (Terzo stato), nobiltà, clero.
Qui si tratta di applicazioni più o meno complete, ora in sede di classi, ora in sede di caste vere e proprie, di uno stesso principio, il cui valore è indipendente dalle sue realizzazioni storiche e che, in ogni modo, ci presentano uno schema ideale atto a farci comprendere il vero senso dello sviluppo storico-politico dalle soglie dei cosiddetti tempi storici fino ai nostri giorni.
In ordine al significato complessivo del sistema gerarchico, sarebbe inesatto, e condurrebbe all’equivoco, data l’accezione corrente della parola, il qualificarlo come «teocratico». Se in ciò si pensa al tipo di uno Stato retto da una casta sacerdotale, o clero, così come appare nelle forme più recenti di religione occidentale, non di questo è il caso nelle costituzioni in parola. Al vertice della gerarchia, nelle forme politiche veramente originarie troviamo invece una sintesi inscindibile dei due poteri, cioè del regale e del sacerdotale, del temporale e dello spirituale in un’unica persona, concepita quasi come incarnazione di una forza trascendente.
Il rex era simultaneamente deus et pontifex, e qui, quest’ultima parola va presa nella trasposizione analogica del suo senso etimologico di «facitore di ponti» (Festo, S. Bernardo): il re, come pontifex, era il facitore di ponti fra naturale e sovrannaturale, ed eminentemente in lui era riconosciuta la presenza della forza dall’alto capace di animare i riti e i sacrifici, concepiti, questi, come azioni oggettive trascendenti atte a sorreggere invisibilmente lo Stato e a propiziare la «fortuna» e la «vittoria» di una stirpe [14]. Se dall’antica Cina e dall’antico Giappone ci portiamo all’antico Egitto, alle prime forme regali ellenico-achee e poi romane, ai ceppi nordici primordiali, alle dinastie degli Inca e così via, noi vediamo sempre ripresentarsi questo concetto; non troviamo al vertice una casta sacerdotale o chiesa; vediamo che la «regalità divina» non riceve da altro (come quando subentrerà il rito dell’investitura) la sua dignità e autorità: essa – come si diceva nell’antica Cina e come si ripeterà nell’ideologia ghibellina del Sacro Romano Impero ha direttamente il «mandato del Cielo» e si presenta come una specie di «superumanità» virile e spirituale ad un tempo.
Fissar bene questo punto, è essenziale, per poter individuare dove, idealmente, si inizio il processo regressivo nei confronti dell’ideale politico tradizionalmente più alto. In tale ideale la gerarchia delle quattro classi o caste (qui non possiamo distinguere le due nozioni, né indicare le premesse metafisiche con le quali si giustificava la chiusura endogamica) [15] sensibilizzava dunque i gradi progressivi di una elevazione della personalità in corrispondenza ad interessi e forme di attività sempre più libere dal vincolo del vivere immediato e naturalistico. Poiché, rispetto all’anonimato delle masse intente al mero vivere, già gli organizzatori del lavoro, i possessori patriarcali di una terra, rappresentavano l’abbozzo di un «tipo», di una «persona».
Ma nell’ethos eroico del guerriero è già chiara una forma di superamento attivo dei vincoli umani, la forza di un «più che vita» – intronata poi come calma dominazione nel capo, lex animata in terris. L’ideale della fedeltà – bhakti, dicevano gli Indo-ariani, fides dicevano i Romani, fides, Treue, trust ripeterà nel Medioevo – nella doppia forma di fedeltà alla propria natura e di fedeltà alla casta superiore, faceva la saldezza della gerarchia ed era via per una partecipazione dignificante dell’inferiore al superiore attraverso il servigio, la dedizione, l’obbedienza di fronte ad un principio di autorità eminentemente spirituale: giacché là dove il regime delle caste — come nell’india — ebbe il suo massimo rigore, proprio là vediamo le caste più alte imporsi né attraverso la violenza, né attraverso la ricchezza, ma appunto attraverso l’intima dignità della funzione che corrispondeva alla loro natura.
Con ciò abbiamo tutti gli elementi per comprendere il corso dei tempi ultimi come una graduale discesa del potere, dell’autorità e dell’idea di Stato — come pure dei valori e degli ideali predominanti — dall’uno all’altro dei livelli corrispondenti alle quattro antiche caste.
segue nella seconda parte
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Note
[1] René Guénon, Autorité spirituelle et pouvoir temporel (Autorità spirituale e potere temporale), 1929.
[2] Heinrich Berl, Die Heraufkunft des fünften Standes (L’avvento della quinta casta/del quinto Stato), 1931.
[3] Evola fa riferimento all’opera “Vigliaccheria del XX secolo” del 1933 di Giuseppe Attilio Fanelli, squadrista della prima ora, espulso dal partito fascista nel 1923 e successivamente giornalista d’assalto d’estrazione monarchica ed antigentiliana. Fondò quattro giornali anticonformisti: “Il Veltro”, “L’Italia Nuova”, “Il Secolo Fascista”, “Il Nuovo Occidente”, intorno ai quali raccolse un folto gruppo di giovani seguaci della monarchia e del corporativismo (N.d.R.).
[4] Esiodo, Opere e giorni, vv. 109 sgg.
[5] Mânava-dharmasâstra, I, 81, sgg.
[6] Daniele, II, p. 31-45.
[7] Cfr. in materia Hubert-Mauss, Mélanges de Histoire des Religions (Raccolta/miscellanea di storia delle religioni), Paris, 1929, pp. 189 sgg..
[8] cfr. J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, ed. 2007, parte II, p.219 sgg..
[9] Mânava-dharmasâstra, IX, 302.
[10] Vishnu-purâna, VI, I.
[11] Cfr. A. Weber, Indische Studien (Studi indiani), v. X, Leipzig, 1868, pp. 4-8; E. Sénart, Les castes dans l’Inde (le caste nell’India), Paris, 1896, p. 67.
[12] H. Berl, Die Heraufkunft des fünften Standes, cit., pp. 18, 27.
[13] Rg-Veda, X, 90, 11-12.
[14] Cfr. ancora J. Evola, Rivolta contro il mondo moderno, I, § 1 sgg..
[15] Cfr. Ibidem, I, § 15.
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