Quest’anno per il Natale di Roma vi presentiamo un piccolo scoop, vale a dire l’unico articolo che il professor Franz Altheim, famoso storico delle religioni, filologo classico e storico dell’arte tedesco, scrisse, su invito di Julius Evola, per il “Diorama Filosofico”, nella terza pagina de “Il Regime Fascista”, nel luglio 1942. Un articolo dedicato, in particolare, alla concezione romana del divino. Altheim, “uno dei più competenti e illuminati studiosi della romanità antica”, come lo definì Evola nella breve presentazione all’articolo, collaborò alla Deutsches Ahnenerbe di Himmler, di cui fu membro onorario. Grazie ai sovvenzionamenti dell’Ahnenerbe Altheim potè effettuare dei viaggi di ricerca, insieme a sua moglie, la fotografa Erika Trautmann, in Italia (durante i quali conobbe personalmente Evola), per studiare le origini dei popoli latini ed approfondire, come ad esempio in Val Camonica, le affinità tra incisioni rupestri e rune, nonchè nei Balcani ed in Medio Oriente.
Soprattutto con le numerose ed importanti pubblicazioni tra il 1938 ed il 1950 Altheim avrebbe presentato al pubblico il frutto dei propri studi su Roma Antica. In Italia proprio Evola, ma anche Adriano Romualdi, ne fecero conoscere l’opera.
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di Franz Altheim
Tratto da “Il Regime Fascista”, 26 luglio 1942
Presentazione di Julius Evola:
“Il prof. Franz Altheim, dell’Università di Halle, è uno dei più competenti e illuminati studiosi della romanità antica. Sue opere principali sono: Storia dell’antica religione romana (3 volumi); Lex Sacrata, Déi Greci in Roma antica, La migrazione dorica in Italia, ecc.. Recentissimamente è uscito, presso la Casa Ed. Pantheon (Lipsia-Amsterdam) il secondo volume della sua opera L’Italia e Roma, ove, fra l’altro, si trovano sviluppate le idee contenute nel presente scritto”.

Franz Altheim
Ad una considerazione approfondita non fa dubbio che la religione della più antica Roma fu un membro e un elemento del complesso italico in genere. Di fronte a ciò vien tuttavia da chiedersi, come Roma abbia raggiunta una sua propria forma. Per quanto più oggi s’inclini a credere che l’essenza romana ha avuto tratti propri e originali, di tanto più è imprescindibile chiarire questo punto.
Le interferenze fra l’elemento romano e quello italico sono notevoli e profonde. Tuttavia ciò non decide ancora l’essenziale. La religione romana e quella italica furono lungi dal coincidere. La corrispondenza riguarda solo l’esteriorità oggettiva. Il ricorrere degli stessi Déi e degli stessi riti non deve ingannarci e farci ignorare la presenza di una forte differenza: differenza, che è di forma spirituale.
Consideriamo un primo esempio: i nomi divini quali appaiono nel culto sannita e quali si trovano nel ciclo romano di Cerere. Nell’un caso essi sono dati nei loro insieme, quasi come frammenti di un tutto esistente che li ricomprende. Nel culto romano essi sono invece dati in serie, in relazione ad una successione di azioni. Abbiamo dunque un doppio carattere distintivo.
In primo luogo, si ha che questi Déi romani non si manifestano nella forma calma di un puro «essere», bensì in determinati atti. E come essi han bisogno di tali atti per rivelarsi, cosi essi stessi gli agentes, i principii attivi, cosa espressa dai loro stessi nomi. In secondo luogo, la serie divina romana si articola in uno sviluppo temporale, cosa che non trova nessuna corrispondenza nella religione italica, mentre ricorre frequente a Roma.
Il sacerdote romano di Giove, il flamen Dialis, ci dà una magnifica espressione di questa speciale forma spirituale. La sua vita era determinata da norme, che profondamente ne regolavano il corso, indicando tutto quel che il flamen doveva o non doveva fare, a tal punto, che una tale vita altro non significava, se non un costante culto del Dio — anzi, di più: l’essenza del Dio si sensibilizzava attraverso questo modo di vita del suo sacerdote. Di nuovo, viene dunque in risalto l’importanza dell’elemento temporale, che anche qui si lega ad uno speciale carattere d’attività. La vita del sacerdote nel suo sviluppo nel tempo rappresentava tutta un’azione rituale, nella quale Giove quale dio del cielo e del giorno assumeva una forma visibile. Il flamen consapevole della sua dignità conduceva una vita, che esprimeva qualcosa di superiore al tempo, appunto l’idea di Giove. Ma ciò avveniva appunto per mezzo di una forma temporale, con lo svolgersi di una vita singola recante l’impronta del Dio.
Qualcosa di simile si ritrova in particolari curiosi del rituale del più antico collegio sacerdotale romano, quello dei fratelli Arvali. Si tratta di riti agricoli nei quali avevano una parte speciale quattro dee: Deferunda, Commolenda, Coinquenda e Adolenda. L’apparire di tali dee non era legato ad azioni sacrificali determinate e fissate in certi punti delle stagioni. Esso si legava invece a fenomeni staccati, come, per es., il crescere di un albero di fico o una folgore nel bosco sacro. L’essenza di tali divinità, lungi dal riflettere un ordine di esistenze supertemporali, sopraelevato rispetto ai processi umani o naturali, si rivela dunque in accadimenti singoli disposti nel tempo — in altre parole: si rivela nella storia.
Gli esempi fin qui addotti si riferiscono agli strati più antichi della religione romana. Adesso vogliamo considerar brevemente qualcuno degli stadi successivi.
La «Fortuna» romana non rappresentava solo l’elemento «caso» presente in ogni avvenimento. Come dea di un dato luogo o di un dato giorno essa poteva connettersi ad un particolare sviluppo e come Fortuna di un Tullio o di un Crasso, ad un particolare essere. Anche l’equivalente greco, Tyché, poteva rivelarsi in particolari località o esseri viventi. Tuttavia resta una differenza fra i due popoli, consistente appunto nel risalto dell’elemento «tempo». Nella concezione greca non troviamo nessuna corrispondenza per l’idea romana della «Fortuna» di un dato giorno — huius diei. Il carattere fatidico, irripetibile di un singolo giorno, abbia pur esso un significato storico o politico, e quindi quello della «Fortuna» corrispondente, fu qualcosa di spiccatamente romano.
Il rapporto storico e irripetibile rispetto al mondo divino si rivelò anche nella costruzione dei templi. Il tempio greco — come qualcuno ha detto — « è come se fosse, sempre esistito». Invece per quello romano la fondazione era un elemento decisivo. Già la dedica di tali santuari avveniva in momenti che possedevano un carattere speciale ed unico: nel momento di un pericolo o di una decisione o, per motivi particolari, come un terremoto. Inoltre nella tradizione non solo restavano l’anno e il giorno della dedica dei templi romani, ma altresì quelli della loro costruzione e consacrazione. È proprio l’opposto dell’attitudine greca, per la quale i riferimenti cronologici, anche quando erano presenti, venivano considerati privi d’importanza. Procedendo ancor d’un passo, incontriamo addirittura divinità, l’intero essere delle quali si basa tutto sul loro apparire in un’ora determinata.
Per i Greci la rivelazione del divino nel tempo ebbe dunque solo un valore secondario. Per essi, tutto si svelava secondo un essere supertemporale. Per i Romani vale il contrario. L’accadimento unico, cronologicamente determinato, assunse una dignità tale da offuscare l’aspetto «essere» e di toglier a questo il suo posto privilegiato. La concezione «storica» che Roma ebbe del divino si oppone come un mondo a sé ricco di senso all’essere extratemporale o supertemporale degli Dèi dei Greci.
Queste considerazioni sarebbero incomplete se non si accennasse anche al concetto di numen. Esso fu d’importanza capitale per la religione romana. Poiché esso comprese tutto quel che all’inizio abbiamo inteso come «atto» e come «agente», La parola numen fu usata dovunque si trattasse di una azione divina. Si parlò del numen degli Dèi quando si trattava di una potenza o energia divina. Ogni Dio aveva un numen, anzi talvolta si parla di più numina di un unico Dio, distinguentisi sia per il momento che per il modo dell’agire.
D’altra parte un Dio poté esser lui stesso designato come numen quando si esprimeva in una data direzione o azione e quando soprattutto questa sua manifestazione interessava. S’intendeva allora non l’intera sua figura, ma, in prima linea, il suo agire. Dediche, come numini Jovi, numini Apollini indicavano direttamente tali divinità come atti divini. E questo fatto, cioè che nel Dio venne eminentemente sentito l’aspetto «azione», si può constatare fin dai primissimi tempi della romanità.
Non vi è dubbio circa ciò che il nume genius significò in Roma antica. Appartiene alla radice gen (generare), solo che il nome non è dedotto dal presente duplicativo gigno ma dalla radice aoristica. Quale nomen agentis, genius ebbe un significato non iterativo, ma efficiente. L’idea del genius comprese certo quella di un ente che produce una serie di vite singole. Tuttavia come momento decisivo fu inteso quello della generazione. Concesso come divinità ad una data persona, il genius si riferiva, nella sua attività, ad un momento singolo, individuo e pieno di significato. Perciò a questo genius fu sacro soprattutto il giorno natale, nel quale si manifestò la generazione di quell’uomo.
Secondo Cicerone, la forza e il numen di una divinità si manifestavano nei «prodigi». Con la parola prodigium il Romano designava quei fenomeni dell’ordine naturale o umano, che per il loro carattere anormale accennavano che i rapporti armonici fra Stato e divinità erano stati turbati, se non anche distrutti: senza però che ne dovesse derivare senz’altro una sventura. Questa fede nei prodigi è una conseguenza necessaria della concezione degli dèi come «atti» propria ai Romani. Se la divinità non è un semplice «essere», ma si manifesta nell’agire, la forma eminente di un tale agire non poteva che essere quella avente anche il significato dì un segno dato ai suoi adoratori.
Pertanto i prodigi non erano semplici cenni atti a manifestarsi indifferentemente in qualsiasi tempo. Era invece importantissimo il momento nel quale si verificavano. Era estremamente importante il fatto che essi avvenissero in giorni critici, presso pericoli o imprese in grande stile o in periodi di calma apparente: importava cioè il tempo e la loro situazione storica. Per questo la storiografia romana dedicò una particolare attenzione ai prodigi: l’annalistica, Livio e Tacito sono ricchi di riferimenti in proposito. E vi è un libretto di Giulio Ossequiense che contiene un elenco di tutti i prodigi mentovati nelle opere di Livio a partir dal 190. I prodigi e la loro enumerazione storiografica ci indicano un elemento originario dell’attitudine romana. Fin dagli inizi al Romano la sua storia deve essersi presentata come una catena di azioni guidate da continui cenni divini e, conseguentemente, armonizzate col volere divino per mezzo di un incessante domandare. La scienza augurale rimanda ai tempi più antichi, e non vi fu rivolgimento politico nel quale si mancasse di chiederle dei responsi. La stessa fondazione di Roma sarebbe avvenuta sulla base di un responso del genere: nell’epopea di Ennio l’inizio di tutta la storia romana vien dato come l’augustum augurium di Romolo.
Così in questa concezione della storia come uno svolgimento guidato da indizi divini si ha la controparte del fatto che, a loro volta, gli Déi di Roma abbiano preferito di manifestarsi in atti storicamente unici anziché in forme soltanto supertemporali.
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