di Julius Evola
Tratto da “Lo Stato”, XII, 10, ottobre 1941
Continua dalla seconda parte
8. – Per il razzismo contemporaneo esiste una duplice possibilità di interpretazione assolutamente analoga a quella indicata per il fenomeno della concentrazione totalitaria: ed anche in questo caso il criterio di giudizio è dato dallo spirito aristocratico.
Vi è chi ha creduto di poter considerare il razzismo politico contemporaneo come un capitolo dell’«umanesimo», nel senso più generale di una concezione del mondo e della vita, al centro della quale sta essenzialmente l’uomo. A partir dalla cosidetta Rinascenza ha agito sistematicamente la tendenza a trasferire all’uomo la mistica del divino e, cosa singolare, di tanto più, per quanto più l’uomo cessò di esser considerato come un essere privilegiato della creazione e che lo si studiò non più sulla base della sua origine e della sua destinazione sovrannaturale, bensì come una delle tante specie naturali e, alla fine, perfino animali. Così la parola antropologia, che in origine significava la scienza dell’uomo in genere, nella sua completezza fisica e spirituale, finì con l’assumere un significato nuovo: non fu più la scienza dell’uomo come tale, ma dell’uomo come un essere della natura, cui possono applicarsi metodi classificatori simili a quelli della zoologia e della botanica: fu una scienza naturale dell’uomo. Ma in pari tempo agì l’anzidetta tendenza a divinificare l’uomo: la si vede già in opera nel culto deista e illuministico-massonico della «umanità», sviluppandosi fino alla mistica bolscevica dell’uomo collettivo e del messianismo tecnico; ma, secondo gli autori qui accennati, essa apparirebbe anche in tendenze assai diverse, come tendenza a divinificare l’umanità come sostanza di una data nazione, di una data stirpe, o, appunto, come realtà biologica, come sangue e razza.
Questa interpretazione, però, calza solo per alcune forme estremiste di razzismo le quali, pur avendo un carattere esclusivamente «scientifico» nel senso moderno materialistico e positivistico del termine, escono dal campo scientifico per promuovere una mistica sui generis. Ma ciò non è il caso per tutto il razzismo. Già a partir dal De Gobineau ne è infatti ben visibile l’origine in fondo aristocratica: il razzismo si è affermato nel mondo moderno come una reazione contro il pantano dell’egualitarismo democratico e contro un clima materialistico e antiqualitativo, che, in fondo, è proprio il clima ove si è sviluppato lo stesso scientismo: dal quale scientismo, per una curiosa inversione, il razzismo, in altri suoi aspetti, doveva tuttavía prendere in prestito varie sue armi e nel quale doveva cercare i suoi alibi. E’ ben possibile, nel razzismo, discriminare e isolare appunto la tendenzialità superiore ora accennata, intendervi un principio di rivolta contro una civiltà internazionalistica, livellata, razionalistica e plebea epperò presentire nel ritorno all’idea di razza – e soprattutto di razza superiore o superrazza – la ripresa di un retaggio spirituale e aristocratico da noi dimenticato o irresponsabilmente dissipato.
Perciò là dove il razzismo risenta della sola componente umanistico-materialistica, può ben accadere che, nelle sue forme estremistiche, il suo luogo ideale cada proprio verso la fine di un ciclo: perduto il senso della realtà metafisica e dell’elemento divino dell’uomo, una certa civiltà occidentale è passata a considerare l’uomo in sè stesso e, successivamente, l’uomo come semplice specie animale e, riportandolo alla razza, della razza – come realtà soltanto biologica – essa è andata a fare una mistica. Ma là dove il razzismo risente dell’altra componente – di quella aristocratica che, come abbiamo ricordato, esercitò una precisa influenza sui primi teorici delle razze «maschie», «diurne» ed «attive» e nel mito generale della razza aria, nordico-aria e ario-romana dominatrice – il luogo storico del razzismo è molto diverso, esso può cadere all’inizio di un nuovo ciclo ricostruttivo: pur prendendo in prestito varie armi dalle scienze moderne per la difesa della razza del corpo, il razzismo ha qui la possibilità di usare queste armi contro la concezione materialistica, democratica e razionalistica propria alle ultime fasi della decadenza occidentale: affermando, di contro a tale concezione, il valore del sangue, della tradizione, della razza, intendendosi a ristabilire delle differenze e delle gerarchie, il razzismo può aver un significato di restaurazione e di ripresa di valori superiori.
È lo spirito aristocratico, peraltro, che condiziona questa possibilità superiore del razzismo moderno e, propriamente, è l’unione organica e profonda già accennata fra i concetti di razza e di graduazione interna della razza, di tradizione e di esoterica della tradizione e, infine, di una élite virile e spirituale, aderente all’antico ideale ario della superiorità olimpica.
9. – La funzione fondamentale di una vera aristocrazia è di dare il «tono» ad una civiltà meno con un’azione diretta che per mezzo di un’azione «catalitica», cioè di un’azione esercitata dalla semplice presenza. Questa idea non deve tuttavia aver per conseguenza un dualismo, facendo nascere la supposizione che coloro che hanno il potere politico non debbano essere esponenti della aristocrazia in quistione e che, a loro volta coloro che sono esponenti di questa aristocrazia non debbano avere un potere politico. Bisogna considerare invece una funzione anche politica dei rappresentanti del vero spirito aristocratico e precisarla con alcune brevi considerazioni.

il “mito di Europa” è ancora oggi raffigurato sulle monete greche
Vi è fin troppa gente che ancor oggi concepisce essenziale per la qualificazione politica una mancanza fondamentale di principi, se non pure di carattere, una plasticità e una duttilità di fronte alle circostanze esterne più contingenti, un realismo di bassa lega. Noi crediamo invece che là dove non si abbiano dei princìpi, dei valori spirituali, non si possa parlare di vera classe dirigente nemmeno in senso politico. Ora la parte di una nuova arìstocrazia nel nuovo Stato, nel riguardo, dovrebbe esser quella di dare a tutti il senso di una terra ferma, di un centro immutabile, superiore alle vicende mutevoli e alle contingenze, dalle quali essa naturalmente non deve astrarsi, ma sulle quali deve affermarsi per riportarle con i mezzi più adeguati sulle direzioni volute. Senza di ciò, non si può infondere fiducia ad una nazione, non si può svolgere nessuna opera educatrice e formatrice in senso superiore: perchè a tanto non basta nemmeno l’uso dei «miti», cioè di idee che non valgono per il loro contenuto intrinseco bensì per il loro confuso potere suggestivo irrazionale e subrazionale.
Per via della partecipazione dei rappresentanti del vero spirito aristocratico alla classe dirigente politica, valori etici e spirituali, tra loro armonizzati e ben fondati, dovrebbero dunque entrare in una posizione di equilibrio con i valori materiali e sociali. Così quei valori superiori andrebbero a compenetrare tutto l’uomo, a dar un orientamento ad ogni sua attività e a render possibile la formazione e la conservazione ininterrotta di doti di carattere e di «razza», di cui la classe politica dirigente dovrebbe per prima dare l’esempio. Queste doti sono la lealtà, la sincerità, il sentimento di onore, il coraggio non solo fisico, ma anche intellettuale e morale, la forza di decisione. Ma, oltre a tutto ciò, dovrebbe aggiungersi la tendenza ad uno stile autetico, una mancanza di vanità, una virile e dignitosa impersonalità.
Vorremmo usare questa espressione: ascesi della potenza. Questi dovrebbero essere gli effetti dello spirito aristocratico sugli elementi politici dirigenti. Per dare il senso della potenza, è necessario farne sentir bene la differenza dalla ricchezza. Il potere politico che, per tal via, tenderà ad assicurarsi anche una vera autorità spirituale, dovrà affermarsi in piena indipendenza da ogni potere che si lega alla ricchezza. Non ricchezza, dunque, ma qualcosa di più: il potere sulla ricchezza.
Chi ha poi veramente il potere ed è consapevole di esserne degno, chi si sente realmente superiore, si rende anche conto che ogni forma di vanità e di personalismo lo abbassa: sono, queste, forme artificiali e fittizie di valere di fronte a sé stessi e di fronte agli altri, di cui egli non ha bisogno. Esse non han nulla a che fare con uno stile ario, nordico-ario e ario-romano di vita. E’ cosi che potrà formarsi un nuovo gruppo dirigente antintellettualistico, ascetico ed eroico, quasi feudale e barbarico nella sua durezza e inattenuazione di forme, silenzioso, serrato e impersonale come un Ordine, ma appunto per questo realizzante una forma superiore di personalità, non improvvisato, ma giustificantesi con una «tradizione» e con una «razza» vissute nei loro valori più profondi e trascendenti.
Le forze di questa élite non debbono perder contatto con i vari piani della vita nazionale. Il suo compito sarà che nell’inquadramento dei vari problemi politici, nazionali e internazionali, la realizzazione più precisa delle finalità temporali vada di pari passo con l’aderenza alle idee fondamentali delle proprie tradizioni e col rispetto di quei valori essenziali, sui quali si fonda la dignità umana e la nozione stessa di personalità.
Si tratterà, perciò, anche di un’azione di edificazione interna, non dissimile da quella svolta, in civiltà di altra natura, dagli amministratori di una data fede: con la differenza, però, della negazione di ogni dualismo unilaterale e dilaceratore. Nel mondo moderno prospera sì una ricca selva di miti politici e la stessa parola «mistica» la si vede usare nelle occasioni più diverse e peregrine. Tuttavia, a parte le frasi fatte, si vive in una epoca, nella quale non è facile dare agli uomini il senso della ragione più profonda per la quale essi lavorano, si sottopongono ad ogni specie di disciplina, generano, si affaticano e spesso si offrono al sacrificio o ad una morte eroica. In questo campo i capi con la parola, con l’esempio, con l’azione, in ogni modo insomma, dovrebbero fornire delle evidenze, dovrebbero mostrare una via, dovrebbero infondere in ogni forma di vita e di azione dell’uomo nuovo, antiborghese e anticollettivista, un significato superiore trasfigurante.

L’odierno Papa può essere ancora considerato un pontifex?
Si ricordi una veduta che è classica e ariana prima di essere stata ripresa e in una certa misura alterata dalla fede occidentale predominante: esiston due Stati, l’uno grande, che riprende ad un tempo sia le forze umane che quelle divine – qua dii atque homines continentur – l’altro è quello in cui si è legati dal destino della nascita. «Vi sono degli esseri che servono simultaneamente l’uno e l’altro Stato, altri soltanto quello piccolo, altri solo quello maggiore» (SENECA). Un antico detto nordico è «Chi è capo ci sia ponte» – cioè collegamento fra due rive, fra due mondi, per comprendere in sè la natura di entrambi: il senso originario, precristiano del termine pontifex è lo stesso: «facitore di ponti» – e lo stesso è, di nuovo, il termine che designava, nell’antica civiltà indo-aria, la funzione che l’insieme dei capi spirituali aveva in proprio.
Questa funzione resta la stessa per ogni schiera di uomini, che in un qualsiasi punto della storia vada ad incarnare lo spirito aristocratico nella sua alta potenza. È, questa, simultaneamente una funzione etica: ascesi della potenza, testimonianza di un superiore tipo umano. É questa, anche, una funzione politica, perchè ai capi spetterà indicare le vie, per cui il tener fermo in qualsiasi posto dello stato temporale può assumere simultaneamente il significato di un tener fermo sul fronte dello Stato interiore e trascendente, per cui in ogni nemico esteriore si può combattere lo stesso nemico che va vinto entro di sè, e, infine, per cui anche sul piano delle nazioni connesse da uno stesso destino e da una comune origine possa realizzarsi una unità nell’onore e nella fedeltà, al di sopra di ogni ambizione particolaristica, di ogni selvaggia volontà di potenza e di qualsiasi insidia da parte delle forze segrete della sovversione mondiale.
In quest’ultimo aspetto sta per noi un altro titolo, per il quale la comprensione dello spirito aristocratico oggi ha un carattere di particolare attualità, non alimenta un fiacco conservatorismo ma incita ad un ritorno alla tradizione vivente, non infonde sterile nostalgia per un passato esaurito ma eccita una volontà protesa verso un futuro costruttivo. Dalle considerazioni qui brevemente svolte si può esser perfino condotti alla persuasione che una nuova manifestazione dello spirito aristocratico socondo una forma adeguata ai tempi nostri è una condizione, a che in una sostanza ancora dinamica e vulcanica, agitata dalle tragiche vicende di una necessaria opera di demolizione tuttora in corso, si prevenga ogni tendenzialità negativa, collettivizzante e materializzante, vi si enucleino invece in modo sempre più preciso le tendenzialità positive, quelle, per le quali i nostri movimenti hanno senz’altro un significato di riascesa, di ricostruzione e di rianimazione del più alto retaggio arioeuropeo.
'Sull’essenza e la funzione attuale dello spirito aristocratico (III parte)' has no comments
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