Oggi, in occasione della festa del lavoro, celebrata con la consueta enfasi in molti paesi, proponiamo un estratto da “Gli uomini e le rovine”, in cui Evola ci ricorda la differenza tra “azione” e “lavoro” in senso tradizionale, e ci spiega come attualmente ogni attività umana in senso lato, compreso ciò che originariamente era da considerarsi vera “azione”, sia degradata a mero lavoro, vero e proprio totem dell’epoca moderna, glorificato ed esaltato come un valore etico assoluto: proprio quello su cui si fonda, secondo l’art. 1 della Costituzione, la Repubblica italiana, laica e materializzata. Il tutto in nome di quell’ottica mercantilistica dell’esistenza umana, che ormai caratterizza completamente l’epoca in cui viviamo, da quando la demonia dell’economia ed il mito rovesciato dell’homo oeconomicus hanno spodestato ogni parvenza di umana normalità.
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di Julius Evola
tratto da “Gli uomini e le rovine” (capitolo VI, lavoro – demonia dell’economia)
E qui conviene accusare un’altra delle fissazioni patogene dell’età economica, un altro dei suoi slogan fondamentali. Alludiamo alla superstizione moderna del lavoro, che è ormai propria tanto alle correnti di “destra” che a quelle di “sinistra”. Come il “popolo”, così pure il “lavoro” è divenuto una di quelle entità sacre ed intangibili, circa le quali l’uomo moderno non osa dir nulla che non sia lode e esaltazione.

Francobollo celebrativo di Aleksej Grigor’evič Stachanov, il celebre minatore innalzato a simbolo sovietico della nuova “etica” universale proletaria del lavoro
Una delle caratteristiche dell’era economica secondo i suoi aspetti più squallidi e plebei è appunto questa specie di autosadismo, che consiste nel glorificare il lavoro come valore etico e dovere essenziale, e nel concepire sotto specie di lavoro qualsiasi forma di attività. Ad una futura, più normale umanità non vi è perversione che apparirà più singolare di questa, onde, di nuovo, il mezzo si fa fine. Il lavoro cessa di significare qualcosa che si impone unicamente in vista delle necessità materiali dell’esistenza e a cui non deve esser accordato uno spazio di quel che la normalità di siffatte necessità, a seconda dell’individuo e del suo rango, lo richieda, ma lo si assolutezza appunto, sotto le specie di un valore in sé, associandolo simultaneamente al mito dell’attivismo produttivo parossistico.
In più si viene ad una vera e propria inversione. La parola “lavoro” ha sempre designato le forme più basse dell’attività umana, quelle appunto che sono condizionate più univocamente dal fattore economico. Tutto quanto non si riduce a simili forme, è illegittimo chiamarlo lavoro; la parola da usare è invece azione: azione, e non lavoro, è quella del capo, dell’esploratore, dell’asceta, dello scienziato puro, del guerriero, dell’artista, del diplomatico, del teologo, di chi pone una legge o di chi la infrange, di chi è spinto da una posizione elementare o guidato da un principio, del grande imprenditore e del grande organizzatore. Ora, mentre ogni civiltà normale, grazie al suo orientamento verso l’alto, s’intese a dare un carattere di azione, di creazione, di “arte” perfino al lavoro (per il che, ad esempio, ci si può riferire di nuovo all’antico mondo corporativo), esattamente il contrario accade nella presente civiltà economica: perfino all’azione – a ciò che può esser rimasto di degno di tale nome – si tende a dare, oggi, un carattere di “lavoro”, quindi economico e proletario, quasi per un piacere sadico della degradazione e della contaminazione.

Giovanni Gentile (1875-1944), nel contesto del suo sovversivo divenirismo dialettico, teorizzò, dopo un presunto “umanesimo della cultura”, l’avvento di un “umanesimo del lavoro”, “la cui instaurazione come attualità e concretezza” sarebbe dovuta essere l’opera e il còmpito del secolo scorso.
È così che si è giunti a formulare l’ “ideale” di uno “Stato del lavoro” e a fantasticare di un “umanesimo del lavoro” perfino in ambienti che si dicono antimarxisti. Un Gentile ha appunto cominciato col glorificare “l’umanesimo della cultura” quale “tappa gloriosa dell’emancipazione dell’uomo” – nel che va intesa la fase liberale, individualistico-intellettuale della sovversione mondiale; tappa insufficiente, egli dice, perché “bisognava che si riconoscesse anche al lavoratore l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero”. Così non vi sarebbe “alcun dubbio che i moti sociali e i paralleli moti socialisti del XX secolo abbiano creato un nuovo umanesimo – l’umanesimo del lavoro – la cui instaurazione come attualità e concretezza è l’opera e il còmpito del nostro secolo”. Il logico sviluppo della deviazione liberale, quale noi l’abbiamo indicato in precedenza, qui appare ben chiaro. Questo “umanesimo del lavoro” fa infatti tutt’uno con l’ “umanesimo integrale” o “realistico” o “nuovo umanesimo” degli intellettuali comunisti (1) e l’ “eticità” e l’ “alta dignità” rivendicate al lavoro sono solo una insulsa finzione a che l’uomo dimentichi ogni interesse superiore ed accetti di buon grado il suo inquadramento ottuso e insensato in strutture barbariche: barbariche, perché non conoscenti altro che lavoro e gerarchie produttive. Il più singolare è che questo culto superstizioso e insolente del lavoro viene bandito proprio in un’epoca in cui la irrevocabile meccanicizzazione ad oltranza toglie quasi senza residuo alle varietà principali del lavoro (di ciò che può venire legittimamente chiamato lavoro) quel che in esse poteva avere un carattere di qualità, di arte, di esplicazione spontanea di una vocazione, facendone invece qualcosa di disaminato e di privo di ogni significato immanente (2).
Così coloro che avanzano l’esigenza, giusta, della “sproletarizzazione” si illudono se in ciò vedono solo un problema sociale. Il còmpito è anzitutto sproletarizzare la visione della vita, compito non assolvendo il quale tutto resta obliquo e vincolato (3). Ma lo spirito proletario, la qualità spiritualmente proletaria (4), sussiste quando non si sa concepire un tipo umano più alto di quello del “lavoratore”, quando si fantastica sulla “eticità del lavoro”, quando si inneggia alla “società” o “Stato del lavoro”, quando non si abbia il coraggio di schierarsi decisamente contro tutti questi nuovi miti contaminatori.
Un’antica imagine è quella di un uomo che correndo affannosamente sotto il sole ardente, ad un certo punto si chiede: Ma perché corro? Se andassi più adagio? E andando più adagio, si chiede: ma perché vado in questa arsura? Se sostassi sotto un albero? E così facendo riconosce come una insensata febbre quel suo correre. Una imagine del genere indica il cambiamento interno, la metanoia necessaria per colpire alla base la demonia dell’economia e per riconquistare l’intera libertà: ciò, non certo per passare ad una civiltà rinunciataria, utopica e miserabile, ma per desaturare ogni dominio da tensioni insane e per ripristinare una gerarchia reale di valori.

“Il còmpito è anzitutto sproletarizzare la visione della vita, compito non assolvendo il quale tutto resta obliquo e vincolato”
Il punto fondamentale, qui, è appunto il saper riconoscere che non vi è accrescimento esteriore economico e prosperità sociale che valga la pena e alla cui lusinga non si debba assolutamente resistere quando controparte ne sia una limitazione essenziale della libertà e dello spazio occorrente a che ognuno possa realizzare quel che gli è possibile di là dalla sfera condizionata dalla materia e dai bisogni della vita ordinaria.
Peraltro, ciò vale non solo per il singolo, ma anche per una collettività, per uno Stato, specie ove le risorse materiali di esso siano limitate e su di esso premano forze economiche straniere. Qui l’autarchia può essere un precetto etico, perché identico deve essere, per un singolo e per uno Stato, ciò che pesa di più, sulla bilancia dei valori: meglio rinunciare alle lusinghe del miglioramento delle condizioni sociali ed economiche generali ed adottare, ove occorra, un regime di austerity, che non aggiogarsi al carro di interessi stranieri, che non lasciarsi coinvolgere in processi mondiali di un’egemonia e di una produttività economiche senza freno destinati a colpire chi li ha scatenati, quando non troveranno più spazio sufficiente.

Friedrich Nietzsche (1844-1900)
L’insieme della situazione attuale è naturalmente tale da dare un carattere contro corrente a tutte queste nostre considerazioni. Se ciò non tocca affatto il loro valore intrinseco, tuttavia devesi riconoscere che, praticamente, al singolo oggi non è dato di reagire e di sottrarsi individualmente all’ingranaggio complessivo dell’èra economica se non entro limiti ristretti e date certi condizioni più o meno privilegiate. Un mutamento sensibile generale può attendersi solo quando intervenga un potere sopraordinato. Riconosciuto che sia il principio fondamentale del primato e della sovranità dello Stato rispetto all’economia, dallo Stato può procedere un’azione limitatrice ed ordinatrice nel campo economico, che agevoli quanto può derivare dal fattore essenziale e imprescindibile, costituito, come si è detto, dalla disintossicazione, dal mutamento di mentalità e dal ritorno alla normalità di uomini che conoscano di nuovo ciò che è sensata attività, giusto sforzo, cosa degna di essere perseguita, fedeltà a sé stessi. “Contestatori” in un senso integrale e legittimo da una parte, “realizzatori” in senso superiore dall’altra, non si può essere che su tale base.
(…) Qui vogliamo ancora ricordare queste parole di Nietzsche, per mettere le cose a posto e tagliar corto con la cosidetta “quistione sociale”: “I lavoratori debbono vivere un giorno come oggi vivono i borghesi – ma al disopra di essi, da essi distinguendosi per una mancanza di bisogni, sarà la casta superiore: più povera, più semplice, ma in possesso della potenza” (5). Una differenziazione in questo senso sarà il principio per la rettificazione dell’inversione da noi accusata, il principio per la difesa dell’idea dello Stato e per il risorgere di dignità e di superiorità che, di là dal mondo dell’economia, attraverso una continua lotta, interna ed esterna, attraverso la conferma del proprio essere mediante una conquista d’ogni momento, debbono venire consolidate e convalidate.
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Note
(1) Il Gentile, fra l’altro, ebbe a definire il comunismo come un “corporativismo impaziente”. Ciò equivaleva a dire che fra il corporativismo del periodo fascista quale egli l’interpretava, e il comunismo non vi sarebbe stata nessuna differenza qualitativa, ma solo quella di due tappe e di due tempi sulla stessa direzione.
(2) Tanto più che oggi si è passati dalla «meccanizzazione» alla robotizzazione del lavoro, quindi alla sua informatizzazione, al lavoro nella Realtà Virtuale, come la New Economy (N.d.C.).
(3) Cfr. Orientamenti, par. 6 (N.d.C.).
(4) E’ essenzialmente in questi termini che si deve porre il problema, perché il proletariato sociale nell’antico senso marxista ormai in Occidente è quasi inesistente: i “lavoratori” già proletari oggi spesso hanno una posizione economica superiore a quella della media borghesia.
(5) F. Nietzsche, Wille zur Macht, par. 764 [Volontà di potenza, Bompiani, Milano, 1995] .
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