Riprendiamo le pubblicazioni di RigenerAzione Evola dopo la pausa estiva, con un articolo che rappresenta, a buon ragione, un esempio di quelli che, tempo fa, definimmo inediti in senso relativo di Julius Evola. Vale a dire, quegli articoli che, dopo la pubblicazione originaria, non sembrerebbero essere stati più riproposti su altre riviste, giornali o raccolte antologiche. Nel caso specifico, l’articolo che proponiamo fu pubblicato su “Il Regime fascista” il 20 febbraio 1932, con l’intitolazione “Innsbruck – teologia ad alta quota – due tradizioni“. Un articolo particolarissimo, che idealmente ricolleghiamo agli articoli di Evola sulla montagna ed agli estratti in forma poetizzata che abbiamo proposto nel mesi passati, anche per lo stile espositivo. D’altronde, lo scritto rientra nel periodo in cui Evola aveva iniziato a viaggiare di frequente nell’area mitteleuropea e si trovava spesso in ambienti di montagna per escursioni e scalate.
In quest’articolo Evola proponeva il resoconto di una curiosa disquisizione “teologica” con due professori della facoltà teologica di Innsbruck, il capoluogo del Tirolo austriaco, iniziato all’interno di uno dei “vagoncini” della Patscherkofelbahn, la funivia che collega la città al Patscherkofel, la celebre montagna che sovrasta Innsbruck ad est, di 2.246 metri di altitudine, che ospita un importante comprensorio sciistico ed escursionistico. L’impianto, inaugurato nel 1929, quindi proprio pochi anni prima che Evola lo utilizzasse con i due “amici” teologi, è ancora pienamente in funzione, ovviamente del tutto rinnovato ed aggiornato nel tempo, l’ultima volta nel 2017. La discussione prosegue sulla montagna, fino ad un rifugio da cui i tre possono godere di una straordinaria vista su boschi e ghiacciai.
Risalta nell’articolo la capacità di Evola di descrivere, oltre alla natura che lo circonda, anche la stessa Innsbruck e le sue caratteristiche, la sua atmosfera, i suoi abitanti. Notevole la chiusa in notturna in città. Tutte descrizioni in cui, come dicevamo, ritroviamo lo stile secco ed efficace, l’espressività ed i colpi di penna che ci rimandano agli scritti sulla montagna. Chi conosce Innsbruck avrà ben presente a cosa Evola si riferisce parlando non solo del Goldenes Dachl o del Patscherkofel, ma anche del Triumphpforte (l’arco di trionfo) e dell’Hochhaus in Maria-Theresien-Strasse. Una chiusa in cui il barone, parlando della razionalità dorica dell’Hochhaus, fa riferimento alla cd. Neue Sachlichkeit, al “Nuovo Realismo” germanico di quegli anni, su cui, approfittando di questo importante spunto evoliano, torneremo.
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di Julius Evola
Tratto da “Il regime fascista”, 20 febbraio 1932
Innsbruck, febbraio
«Bitte schön, sprechen Sie mit mir nicht von der Krise!» — cioè: «prego, non parlatemi della crisi!». Con un cartellino all’occhiello portante questa scritta, mi è stato detto che degli allegri spiriti girano con tutta serietà per le vie di Berlino.

Il Goldenes Dachl, il Tettuccio d’oro, uno dei simboli di Innsbruck: un caratteristico elemento a protrusione tardogotico dell’antico palazzo dei conti del Tirolo (Neuer Hof)
Ma dove la crisi, davvero, poco la si sente, è in questi centri di provincia della vecchia Austria: in questa cara Innsbruck, ad esempio. Lo stesso senso di détente (1), di vita equilibrata sì, ma en relenti (2) che ci aveva colpito sgradevolmente a Vienna, qui non si sente. Qui si capisce invece che cosa vuol dire la razza e il non interrotto, semplice contatto con la natura — molto meglio che nei verbiloqui di tante ideologie.
Forse, sarà anche perché qui non vi è nessun mito che pregiudichi e faccia trovare cosa diversa da quel che nella fantasia si attendeva. Non si cerca la grande città — e si trova invero molto più che non la piccola città. Il caratteristico, qui, è: ordine, stile, correttezza e pulizia perfetta, belle mostre, presenze pittoresche dei tempi antichi, regali e persino feudali (colpisce fra tutte il Goldenes Dachl, la strana torre dalla cupola dorata), che tuttavia trovano magnificamente il loro inquadramento fra il resto — e un genere di vita raccolta, come un misto fra il montanaro, lo sportivo e il tradizionale. Vi è insomma una assenza, che sorprende e che rallegra, della cosa intermedia, dell’elemento borghese-cittadino, nel suo aspetto gretto e piccolo. Qui, si direbbe quasi che non esista l’«impiegato», naturalmente ancor meno il proletario e lo sfaccendato, e che ognuno viva con salute, ordine e libertà la propria vita.
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Questo, circa quanto può risultarne subito all’«uomo della strada». Ma Innsbruck ha anche la sua tradizione culturale, ha un suo spirito, intimamente improntato di religiosità. La facoltà teologica di Innsbruck, per esempio, è ben nota anche all’estero. Vi sono dei tipi interessanti e caratteristici di studiosi, che è piacevole veder circondati da una deferenza e da un rispetto sentito e autentico non solo dalle scolaresche, ma da tutti, un po’ come poteva accadere per un clero medievale. Né queste persone vivono fuor dal mondo — almeno, nel senso di mondo culturale.
Per esempio, ne abbiamo trovati, che erano perfettamente al corrente del nostro «stato di servizio» intellettuale e delle vicende dell’«Imperialismo pagano»; e che nel conoscerci di persona non hanno poco stupito nel non scorgere proprio quel tipo «luciferino» o di «mago» con barba lunga e occhi roteanti e magnetizzanti che forse si erano imaginati. E abbiamo fatta amicizia.
Una discussione è stata assai «pittoresca»: con due professori, appunto, della facoltà teologica, l’uno secco, nervoso, pieno di movimenti improvvisi, con faccia accesa e fortemente sagomata un po’ quasi sul tipo del nostro Buonaiuti — l’altro invece lento e alto, con occhi chiari veramente sacerdotali, occhiali d’oro su capelli pallidi, parola scandita, quasi ritmata, grande compostezza. La discussione è stata interessante tanto per il soggetto che per il luogo.
Soggetto: preesistenza al cattolicesimo di ciò che nel cattolicesimo vi è di veramente «tradizionale» e di «cattolico», cioè di universale; carattere semitico, «antiariano» e inferiore di ciò che nel cattolicesimo è invece pathos cristiano, elemento specifico devozionale, «religione» nel senso «femminile» di questa parola (naturalmente, tali tesi siamo stati noi a proporle per lo scandalo dei due amici teologi innsbruckesi).

La funivia del Patscherkofel come appare attualmente
Luogo: la via della aria. Innsbruck è infatti congiunta al grandioso coro di monti che la circonda ai due lati dell’Inn da un gruppo di filovie — Drahtseilbahn — le quali, impiantate in grande stile, portano su, librandosi talvolta su salti di centinaia di metri, fino ai duemila ed oltre.
Gli argomenti storico-teologici di noi tre si incontravano e si scontravano dunque nel vagoncino della filovia verso il Patscherkopfel, presso al cigolio delle funi metalliche e i trac-trac periodici al passaggio sui sostegni. Pomeriggio. Libero, ampio cielo marino. Nevi sui monti. Sotto, le masse dei grandi boschi, rosso-oliva le une, le altre, le lontane, di una tinta scura metallica, quasi con del turchino. Aria frigida, secchissima e vivificante. Innsbruck al fondo, che poco a poco si impiccolisce, diviene macchia bianca sparsa nella grande valle. Qualcuno degli sbandati echi e suoni che da giù giungono sempre chi sa come fino alle altezze, con strana nitidezza.
Alla stazione di Patscherkopfel (vi è un grande albergo, ma adesso non vi è nessuno: v’è neve, ma il tempo è stato ostinatamente bello, è troppo poca e non si può fare dello sport) la battaglia verbale ha ancora esito incerto. Noi proseguiamo su per un sentiero — vi è un sentiero che conduce sino ad un rifugio del Club Alpino austriaco. Si giunge ad una piattaforma, e qui si schiude — quasi diremmo sboccia — tutto un nuovo orizzonte. Un’altra grande valle a sinistra. Si vedono manti immensi di selve nordiche, si vedono lontane culminazioni di ghiacciai, ora lucenti, ora in trasparenze ialine (3) in questa luce pomeridiana smorzata. Vi è un grande respiro. Vi è un grande silenzio.
E qui si sente (pensiamo fra di noi), ancora una volta, come balocchi da bambini siano pensieri, concetti e argomenti. Si sente inoltre come solo la gran voce delle cose possa fornire l’evidenza vera di ciò che è tradizione, universalità, e ciò che è antitradizione, contaminazione individualistica. Tradizione è quanto giunge a darci il senso di cose, dinanzi alla cui grandezza e eternità tutto ciò che è pathos e passione degli uomini scompare; è quanto ci introduce nel primordiale, nel cosmico, in ciò che nel campo dello spirito ha lo stesso carattere di potenza, e di purità degli oceani, dei deserti, dei ghiacciai. Dove sorge l’attaccamento, l’anelito, lo sperare, il credere, il temere, l’agitarsi, l’«affermarsi», quali si siano le forme, quali si siano gli oggetti, siano pur essi «divini» — si è fuori della tradizione, si è nell’umano, si è nell’antitradizionale : in quel che non ha radice, che sorge e tramonta e scompare nella stessa irrilevanza di nube vana: nella vita, non nel «più che vita».
Qualcosa dì ciò devo aver detto quassù ai due amici teologi. L’uno — il congesto Buonaiuti tedesco — non capisce. L’altro, quello pallido e calmo, mi fissa un momento con i suoi occhi chiari. Poi si volge verso il corale dei monti nevosi.
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Innsbruck verso le due di notte. I Kino sono chiusi. Non vi è forse più che un paio di Stuben, dove ancora si balla. Freddo intenso. Deserto. Nell’azzurro notturno traslucido e stellato, le sagome dei monti si ritagliano nerissime. In cima, brividi di luce sulle nevi: i lumi dei Gasthöfe, che fan da stazioni alle filovie alte.
Theresienplatz: Due presenze. L’una, è l’antico arco trionfale romano, annerito dal tempo. Ma, dinanzi ad esso, come una apparizione spettrale, lo Hochhaus. È l’estrema modernità in questa Innsbruck così tradizionale e «heimlich»: un edificio gigantesco, bianco-magnesia, assolutamente «razionale», fatto più di vetro e di metallo che di muro, illuminato (così che non si vegga l’origine della luce) fino in alto, ove sono torrette assolutamente rettilinee e elementi nichelati come in una corazzata, dei grandi quadranti con segmenti neri al luogo di cifre, infine una grande lunga bandiera bianca e rossa al sommo, illuminata da qualche riflettore, che si muove lentamente vivida, quasi come magnetizzata.

L’Hochhaus in una cartolina d’epoca. Oggi l’edificio ospita gli uffici della società fornitrice di energia elettrica IKB
Dalla penombra della piazza si spicca questa strana presenza bianca, ove una arcaica purità e rettilineità dorico-pagana si congiunge alla più estrema modernità nordica. È l’avanguardia di un nuovo mondo, di quello della Neue Sachlichkeit — «Nuovo Realismo» — che in Germania è la parola d’ordine di una nuova generazione: «dei non spezzati, di coloro che resistono, di coloro che avranno il domani» – secondo le energiche espressioni di un giovane scrittore, il Matzke. È il segno di un nuovo classicismo, di una risorgente aspirazione a superare la persona nell’opera, il sentimento nell’oggetto, l’incerto nel voluto e nel «definitivo» sia in tema di arte che in tema di pensiero e di intimo stile di vita.
Tutto ciò è significativo, ma è curioso qui, nella capitale del cattolicissimo Tirolo, fra i monti, non lungi dai ghiacciai.
Incontri e scontri. Un segno dei temi caratteristici che ancora non improntano queste regioni, ma che vivono già ben più che come teoria nella grande civiltà tedesca del nord: è il ritorno di un tema pagano che peraltro vuole anche aver significato di ritorno alla tradizione e di riattuazione dell’ideale classico, realistico e superpersonale, in seno alle forme stesse della vita moderna più lucida e più liberata dai vincoli delle generazioni romantico-borghesi dell’anteguerra.
D’un tratto, i riflettori si spengono. L’Hochhaus scende nella penombra. Suonano, con timbro profondo, le due.
Note redazionali
(1) in francese, “distensione”, “allentamento”, “rilassamento”, e simili, fino ad indicare svago, relax, divertimento, ecc.;
(2) sempre in francese, “al rallentatore”, “lentamente” (espressione usata anche in Italia, per indicare ad es. fino a qualche decennio fa, le azioni delle partite di calcio che venivano mostrate in replica al rallentatore); l’espressione corretta è “en ralenti“, nell’articolo originale era presente un refuso di stampa;
(3) Evola aveva già usato l’aggettivo jalino o ialino in ambito di “montagna” qualche anno prima, nell’articolo “Dove regna il demone delle vette”, pubblicato su “Il Lavoro d’Italia” il 16 settembre 1927, parlando delle chiazze di nevai sull’Altopiano delle Pale di San Martino di Castrozza (“ora abbaglianti, ora preziosi, jalini“); uno dei tanti articoli ripresi nell’antologia “Meditazioni delle vette”, e da cui abbiamo estratto due sequenze poste in forma poetica, che ritrovate nella nostra pubblicazione “Frammenti di una poetica evoliana delle vette (prima parte)“. L’aggettivo indica l’aspetto e la trasparenza del vetro, o, ancor più esattamente e specificamente (cfr. nota del curatore in Meditazioni delle Vette, Edizioni Mediterranee, parte prima, cap. I), si può intendere nel senso di trasparente e lucente come il quarzo (cfr. il quarzo ialino, comunemente detto anche cristallo di rocca, una varietà completamente incolore e trasparente di quarzo).
Nell’immagine in evidenza, Innsbruck vista dalla cima dell’Hafelekar (2.256 m.), una della principali vette della Nordkette, la cd. Catena del Nord, che chiude a settentrione Innsbruck, ed è la più meridionale delle quattro catene montuose del Karwendel, il gruppo montuoso che di fatto separa il Tirolo dalla Baviera. Da notare il fiume Inn, che attraversa la città, e, a sinistra sullo sfondo, leggermente “spolverato” di neve, il Patscherkofel.
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