Alla vigilia dell’anniversario della dipartita terrena di Julius Evola, riproponiamo questo editoriale a firma del professor Renato Del Ponte, uscito sul numero del solstizio d’estate del 1994 della rivista trimestrale di studi tradizionali “Mos Maiorum”, in occasione del ventennale della scomparsa del barone. Appare evidente l’aggancio delle osservazioni svolte da Del Ponte su livellamento democratico ed individualismo, personalità ed impersonalità, anonimato profano e tradizionale, con l’analisi approfondita svolta in materia da Evola nel fondamentale articolo “Personalità ed impersonalità”, da noi pubblicato una decina di giorni fa. Buona lettura.
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di Renato Del Ponte
Tratto da “Mos Maiorum”, anno 1, n.1, giugno 1994
Credo che il modo migliore per ricordare i venti anni intercorsi dal giorno in cui Evola ci ha lasciato fisicamente, sia di sottolineare come egli, in realtà, non ci abbia mai abbandonato: anzi, la forza del suo pensiero si fa sempre più evidente in quanto si verifica intorno a noi e le cronache ci trasmettono, sì che le sue analisi lucide e spietate hanno assunto, a posteriori, un vero e proprio valore di profezia. In altri termini, Evola vive proprio nella cruda realtà della fenomenologia quotidiana. Solo: bisogna saperlo cogliere, bisogna correre alle categorie del mondo della Tradizione che Evola ci ha fatto conoscere per intendere quel che ci circonda, altrimenti tutto rischierebbe di apparirci come una ragnatela di simboli enigmatici e strani, che non è altro che la condizione in cui si trova la maggior parte dell’umanità, la quale vive e si agita al di fuori delle linee portanti della Tradizione.

“Golconde” di René Magritte (1953)
In questa ottica, esporrò alcune considerazioni nate da riflessioni in margine al pensiero e all’opera complessiva di Evola, dirette soprattutto ai più giovani, che a quel pensiero stanno accostandosi. Nel lavoro, a scuola, nella prassi della vita quotidiana, partiti e sindacati, chiese e presidenti della repubblica (fra cui l’ineffabile “giudice” Scalfaro) ci hanno insegnato che siamo tutti uguali. La liberaldemocrazia e il marxismo ci hanno da sempre ammannito il dogma dell’uguaglianza: ma ciò presuppone volutamente una spinta verso il basso, l’anonimo, l’informe, il subpersonale e l’amorfo. Infatti, se si è uguali, conta soltanto il numero, quindi si può parlare di “civiltà di massa”, frutto primo dell’alienazione contemporanea.
Ma come tutti ben sanno, non si nasce uguali: ci si può peraltro abbrutirsi a tal punto da avvicinarsi ad esserlo. Riconoscendo tale verità, bisogna però dire subito che la via da seguire non è quella dell’individualismo egocentrico. La meta a cui vogliano portare tutte le tradizioni, la meta dell’uomo differenziato di cui parla anche l’Evola della Dottrina del Risveglio, è l’estinzione dell’”Io” personalistico, al fine d’identificarsi nel “Sé” che è il Divino o Trascendente, il Primo Principio che tutto comprende. L’estinzione dell”lo” è quel lungo processo durante il quale si cerca di potenziare nostre eventuali virtù già manifeste, di portare alla luce quelle, per così dire, nascoste e di sublimare (cioè di trasformare nelle corrispondenti virtù) difetti e vizi.
La premessa indispensabile per iniziare tale impresa difficile consiste in una severissima e, nel contempo, distaccata analisi interna. Alla base di tutto dev’essere la volontà di migliorarsi giorno per giorno, senza trascurare le piccole cose. Ma se a qualcuno la questione così impostata potesse apparire facile – se non come attuazione, almeno come indicazione della via da percorrere – muterà idea ove consideri che noi viviamo in una società del tutto alternativa a quella tradizionale e da cui siamo (o almeno lo siamo stati) influenzati indipendentemente dalla nostra volontà.

(immagine tratta liberamente e senza modifiche da pixabay.com (free simplified pixabay license; author: dejankrivokapic)
Ragione per cui potrebbe addirittura capitare di scambiare virtù per vizi o viceversa. Tuttavia esistono guide sicure e certamente, fra esse, le opere di Evola sono le migliori in senso assoluto, anche perché si ha la possibilità di scegliere tra lavori di differente difficoltà e impegno, ma punto fermo restando Rivolta contro il mondo moderno, che, più che letta, andrebbe studiata e la cui assimilazione potrebbe costituire una prima meta, ma senza fretta. Tra l’altro, fra i vantaggi di simili letture, v’è la possibilità di capire, nei suoi significati più profondi, la storia dei Padri. Dal loro esempio anche noi possiamo trarre utili insegnamenti. In relazione a quanto prima si diceva, di identificazione del Divino, lo stile spartano è un utile riferimento. Nella battaglia di Platea contro i Persiani, i Lacedemoni all’inizio rimangono immobili, schierati con gli scudi al piede, senza evitare i colpi nemici (morendo quindi in gran numero) fino a che dalle vittime sacrificate non sono tratti auspici favorevoli. Allora, messo mano alle armi, combattono e vincono con facilità. Gli Spartani, come i Romani e, del resto gli altri popoli indoeuropei, vivevano in continua sacra comunione con i loro dèi.
Non si ponevano interrogativi inutili, pur senza essere passivi, nonostante certe superficiali apparenze. Il coraggio, la freddezza, il valore erano dure conquiste, ottenute al prezzo di una rigida educazione selettiva: non cadevano dall’alto.
L’umile fante caduto eroicamente sul campo di battaglia non era ignoto agli dèi e solo questo importava: nessuno teneva particolarmente a che fosse tramandato il suo nome presso i comuni mortali. Troppo forti erano la fedeltà e il senso della gerarchia per avere simili preoccupazioni. Per tutti gli Indoeuropei vigeva ciò che Tacito riporta nella sua Germania: “È inoltre sigillo d’infamia e di vergogna per tutta la vita ritornare salvo dal combattimento quando il proprio capo è caduto, dal momento che l’impegno più sacro per un uomo è difendere il proprio condottiero e attribuire alla gloria di lui persino i propri eroismi“.
Fino all’estate del 1945 anche l’impero giapponese non conobbe citazioni personali o medaglie: si pensava che ogni suddito del Sol Levante avrebbe comunque agito con valore, tutte le volte che le circostanze lo avessero richiesto.
Nel IV libro delle Origini Catone il Censore narra di come, durante la prima guerra punica, un esercito romano stesse per essere annientato dai Cartaginesi. Allora un tribuno andò dal console chiedendo 400 legionari coi quali avrebbe potuto occupare un colle, proteggendo così la ritirata e offrendo in cambio la propria vita al console stesso e alla repubblica. Ottiene quanto richiesto. Il tribuno e i 400 uomini sono circondati e sopraffatti dal numero esorbitante dei nemici. Tutti cadono trafitti dalle spade e dai dardi cartaginesi, ma il console riesce a salvare l’esercito. In seguito, fortunosamente, il valoroso tribuno verrà raccolto quasi dissanguato per le ferite riportate e, con fortuna non inferiore al valore, sopravvive.
Catone non cita il nome del tribuno e aggiunge: “… scarsa lode toccò al nostro tribuno che pur come Leonida si era comportato e salvato aveva l’esercito“. E ancora soggiunge: “Le nostre legioni eran sempre con alto animo pronte ad andare in luoghi onde sapevano di non tornare“.
I Romani furono definiti come i “Prussiani dell’antichità”, un paragone caro ad Evola, il quale tradusse nel 1965 un’opera significativa per l’editore Volpe: Questa fu la Prussia: Testimonianze sul prussianesimo (a cura di H.-J. Schoeps). Paragone lecito anche quanto ad impersonalità, se per caratterizzare l’onore dell’ufficiale prussiano si poteva dire: “Quando giura sulla bandiera non ha più nulla che sia suo“, oppure: “Non importa che io viva, importa che io faccia il mio dovere” (Federico II al marchese di Angers, nel 1760). Così Evola, in una intervista concessa a “L’Italiano” nel novembre 1970 ammoniva i lettori delle proprie opere ad assimilare le dottrine “senza farsi illusioni sulla realizzabilità di certi fini che anche in tempi ben più propizi dei nostri ebbero un carattere eccezionale e richiesero specialissime qualificazioni“.
Oggi non ci sono più né bandiere, né sovrani visibili a cui giurare fedeltà: ma il fuoco della Tradizione continua ad ardere, come ha scritto De Giorgio, “in un luogo inaccessibile ai profani“. E solo grazie ad esso la nostra lotta ha un senso.
L’anonimato odierno è il perdersi, il confondersi nella molteplicità quantitativa, formata da singole unità che, se possono essere contate, non possono essere distinte l’una dall’altra per qualche differenza qualitativa.
L’anonimato tradizionale significa, al contrario, fondersi armonicamente nell’unità trascendente, dove la distinzione qualitativa è elevata al massimo grado, ma dove sparisce ogni separazione. Non per niente, ciò che unisce più persone tese coralmente verso un fine non materiale, è qualcosa di indistruttibile. Questa è la strada da percorrere, nella quale dovunque si arrivi, a qualunque grado ci si fermi, sarà sempre meglio che rimanere dove e come e si è.
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