di Julius Evola
(tratto dal Roma del 23.01.1972)
Recentemente, in occasione, crediamo, di una certa ricorrenza, in alcuni giornali si è parlato di Trilussa, inclinando a presentarlo come un antifascista. È stato detto che il regime fascista volle dare un esempio di liberalità «tollerando» l’attività di Benedetto Croce e di Trilussa. Quanto a Trilussa, si vuole che con la nomina a senatore tributatagli dall’Italia «liberata» si avrebbe avuto in vista non soltanto il poeta, ma, anche e appunto, l’antifascista. Si può pensare in tal modo solo se si prende separatamente, interpretandola tendenziosamente, qualche poesia di Trilussa senza metterla in rapporto con l’insieme delle sue opere e con lo spirito complessivo di esse. In Trilussa si deve riconoscere un carattere, che si mantenne uguale a se stesso sia prima che durante il fascismo e che ebbe in proprio il coraggio della verità. Le sue satire e la sua ironia, sempre signorili, non si esercitavano per amor di sé stesse, corrosivamente, ma per aver in vista qualcosa di più degno, a cui il poeta non vedeva corrispondere né gli uomini, né le cose.

“Di Trilussa ero amico, ed egli sapeva che le mie idee fossero tutt’altro che democratiche”
Oggi basta non essere adoratori della democrazia per essere tacciati di fascismo: ebbene, a tale stregua Trilussa potrebbe dirsi «fascista», perché i suoi strali più pungenti erano rivolti alle situazioni dell’Italia democratica pre-fascista. «Antifascista» egli poteva esserlo solo per una giusta insofferenza, condivisa da ogni persona ben nata, per un «totalitarismo», per ogni ingerenza del collettivo e dello statale nella sfera individuale e per il bando dato ad uno «spirito libero», anche nel senso migliore di questa espressione. Sta di fatto, poi, che Trilussa ebbe rapporti assai cordiali con esponenti intransigenti del fascismo, fra gli altri con Roberto Farinacci e Giovanni Preziosi. A tanto era anche una ragione specifica, perché le due personalità ora nominate ebbero egualmente, per principio, il coraggio della verità, e proprio per questo, per non aver esitato a denunciare soprusi e cose che nel regime non andavano, per un certo periodo erano cadute in disgrazia.
Di Trilussa, io ero amico, ed egli ben sapeva come le mie idee fossero tutt’altro che democratiche. Non basta. Trilussa stesso non giudicava antifascista l’orientamento delle sue satire e della sua poesia, nelle loro incidenze politiche. Così quando Mondadori si accinse a pubblicare la raccolta completa delle sue poesie, Trilussa mi chiese di scrivere, per esse, una prefazione, proprio per mettere in luce questo punto. Lo accontentai. Poi l’editore cambiò parere e il mio saggio uscì in più puntate in Regime Fascista, il giornale di Farinacci, nel 1933. Trilussa ne fu assai soddisfatto.
In effetti, era facile mettere in evidenza tutte le satire gustose e mordenti scritte da Trilussa avendo in vista il regime democratico e parlamentare, il mondo dei voltagabbana, dei profittatori e delle mezze figure morali; il mondo che, potenziato, è tornato a caratterizzare l’attuale ambiente politico italiano. La Libertà, l’Eguaglianza, la Pace Universale, il Progresso, l’evoluzione e tutti gli altri miti dell’Italia ottocentesca democratica (oggi tornati in particolare auge) furono il ripetuto oggetto della satira trilussiana.

«La libertà di un popolo è simile all’acqua che vien giù dai monti. Se la lasci passare dove vuole, si spreca. Ma se vi è chi la guida e l’incanala diviene forza e si trasforma in luce»
Ricordiamo, ad esempio, la favola della «Libertà» e quella del «Gallo». Nella prima vi è chi spiega: «La libertà di un popolo è simile all’acqua che vien giù dai monti. Se la lasci passare dove vuole, si spreca. Ma se vi è chi la guida e l’incanala diviene forza e si trasforma in luce». Trilussa osserva soltanto che «quando l’acqua nel suo cammino ha messo in moto macchine e turbine, se canta o borbotta non fa male lasciarle un po’ di sfogo naturale». Si vuol dire che solo un superiore principio di ordine rende feconda la libertà; ma su tale via non si deve finire in un sistema pesante, petulante e intollerante. Necessità di un superiore principio, quindi dell’autorità, e necessità di un senso di misura: questo è l’essenziale.
La favola del Gallo riguarda l’eguaglianza democratica. Un gallo vuole abolire ogni distanza e ogni differenza fra la sua dimora e le sedi dell’aquila reale, vuole stare allo stesso livello di essa. L’aquila risponde: «Accetto volentieri la proposta. Sono disposta — a far amicizia, ma non pretendere che io mi abbassi. — Se ti senti la forza, spalanca le ali e vieni in alto. Se non hai animo a ciò, io seguito a fare l’aquila, e tu il gallo». Mentre la democrazia conosce solo quella parità che costringe il superiore ad abbassarsi, secondo ogni sana dottrina è ammissibile e non distruttiva la parità condizionata dalla misura in cui l’inferiore sappia innalzarsi fino al livello del superiore.
Nemmeno esula da Trilussa il riconoscimento del diritto che, in certe situazioni, possiede lo stesso principio della violenza. È proprio dell’asino il metodo di raggiungere chi è di natura più nobile — il cavallo — e che sta alla testa del corteo facendosi avanti a furia di spinte, di urti e di calci: metodo, con cui «per arrivare si fa presto» ma che resta caratteristico «per chi non sa far altro, dato che non si può aiutare col pensiero». Ma per l’asino e il cavallo l’uomo ha due diverse misure, «corrispondenti al fisico e al morale». Se da un animale più nobile si può ottenere l’obbedienza rivolgendosi all’intelligenza — «per farsi obbedire da me — dice il cavallo all’asino che si lamenta — all’uomo basta un fischio, un nome, un niente» — per gli altri solo la forza è un mezzo adeguato e efficace — «per te che sei un somaro e sei paziente, ci vuole un randello».
Una certa tipologia umana in Trilussa è messa ripetutamente in evidenza. Prendiamo la favola del pollo e del mastino. Il primo, come è tutto riverente finché il mastino è libero e potente, del pari è pronto al dispetto e all’insulto quando quello è in disgrazia. Al che, il mastino dice: «Io nell’un caso e nell’altro resto sempre lo stesso — tu, sempre vile».

“Sono disposta, ma non pretendere che io mi abbassi”
Nella favola dell’«Uomo finto» l’ingenuo passero prende il simulacro umano di uno spauracchio per l’uomo vero «padrone del mondo» e si mette a beccarlo per vedere come sia fatto all’interno. Nella testa, non trova che giornali e stracci vecchi — «saranno gli ideali, le convinzioni» — e passa al cuore, dove non trova che paglia. «Per questo prende fuoco per così poco! E dove sta la fede, dove l’onore? Questo è un uomo? Non lo posso credere». «Se domani ciascuno dovesse fare una inchiesta su ciò che in cuore e in testa — risponde lo spauracchio — troverebbe siffatti pupazzi, più che umani». L’opposto di un simile tipo viene indicato da Trilussa, in un’altra favola, col simbolo della candela che, ardendo davanti ad una immagine, «le dà tutta la luce e il calore che possiede senza badare se il fuoco logora e a poco a poco la consuma». E il poeta aggiunge: «Chi non arde, non vive. Come è bella questa fiamma di un amore che consuma, pur che la fede resti sempre la stessa». E se questi sono i punti di riferimento, le distinzioni esistenziali, come si potrebbe non riconoscere il diritto di altre satire di Trilussa, anche quando esse sanno un po’ di fronda?

“Dove sta la fede? Dove l’onore? E’ questo un uomo? Non lo posso credere”, esclama il passero di Trilussa…
È da aggiungere che, nel suo intimo Trilussa assai prima del fascismo aveva nutrito la speranza o la fede in una rinascita «romana» dell’Italia. Infatti è del 1911 la favola del «Libro del mago». Voltate le pagine del libro del destino, negli ultimi fogli si legge: «Dopo tanti anni l’Aquila Romana — che stava chiusa in fondo ad una cassa — spalanca le ali e dice al mondo: — L’Italia sarà grande e forte — a dispetto di quelli che non lo vogliono». E un simbolico interlocutore aggiunge che ciò, nei riguardi di «qualche amico straniero» va completato dicendo: — «L’Italia sarà grande non solo — ma strafottente».
Certo, anche il regime fascista presentò i suoi lati d’ombra, e una critica improntata all’amore per la verità, restando indiscussi alcuni principi basilari, sarebbe stata assai più feconda di ogni supino, indiscriminato ossequio. Ma un Trilussa antifascista per principio è una fiaba. Ed è una vera sfortuna che Trilussa non sia vissuto abbastanza a lungo per dare — come indubbiamente avrebbe dato — del mondo e delle figure dell’attuale era democratica la pittura che essi si meritano: in piena coerenza e con lo stesso coraggio.
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