di Giuseppe A. Spadaro
L’idea di sbarazzarsi di una filosofia dall’apparenza solida e socialmente rassicurante, dispiace a quanti credono che alla base di una dottrina politica debba necessariamente esserci una filosofia (è quel che vuole intendersi col termine «ideologia»), e spiace a tal punto che, anche ad alcuni che proclamano ad ogni piè sospinto il loro cattolicesimo, mai verrebbe in mente di rifiutare l’attualismo gentiliano, palesemente immanentista. Ebbene, se è questo che cercano, e cioè un passaporto culturale per viaggiare nel mondo incerto delle scuole e delle accademie e non un vero «ancoraggio all’oro» tra il fluttuare e lo svalutarsi della moneta filosofica, si tengano pure l’attualismo: in fondo non fa più ombra a nessuno. A chi sta ormai fuori dagli schemi e dall’astratto frasario della filosofia, e specialmente di quei filoni che si riconnettono alla filosofia razionalistica e panlogistica, riesce addirittura arduo portare a termine una lettura che respinge e urta per la sua assoluta mancanza di nesso con la realtà, per la sua cattedratica sicumera come per la sua disarmante vuotezza.
E siccome non sembra che si possa giudicare nel suo insieme la filosofia gentiliana prescindendo dall’idealismo hegeliano, che ne rappresenta manifestamente la matrice, non ci si può esimere dall’inquadrare sinteticamente tale sistema e cercare di coglierlo nel suo significato più autentico.
Sotto tale proposito, l’idealismo hegeliano non può non presentarsi come una proiezione dell’illuminismo nel mondo della restaurazione, come il logico sviluppo del pensiero borghese oltre le antinomie e i disinganni della rivoluzione, con una particolare fisionomia che è quella del romanticismo tedesco. Il nazionalismo di Hegel è il nazionalismo della borghesia europea uscita dalla rivoluzione francese, non il lealismo dinastico ante-rivoluzione. Non c’è da stupirsi che esso si associ al mito storicistico e dia vita alla teoria dello Stato guida, che se Hegel presumeva applicare allo Stato prussiano, è servito poi a conferire «eticità» a tutti i messianismi, ultimo quello marxista della Repubblica dei Sovieti.
Qualche dato biografico non può che darci conferma di ciò. A diciannove anni, quanti ne aveva allo scoppio della rivoluzione, Hegel piantò un «albero della libertà» insieme ai suoi colleghi dell’Università di Tubinga, che rimasero affascinati dai suoi discorsi in difesa dei principi di libertà e uguaglianza proclamati in Francia. Quando brillò l’astro di Napoleone, l’entusiasmo si riversò su di lui. Né quest’esaltazione è da considerarsi un’infatuazione giovanile passeggera. Già dopo che aveva dichiarato esserci «un’affinità elettiva» tra lo Stato prussiano e la sua filosofia, Hegel definiva la rivoluzione «un entusiasmo di spirito che ha fatto tremare il mondo di emozione, come se solo in quel momento la riconciliazione del divino e del mondo si fosse compiuta».
Conoscendo il valore che Hegel attribuisce ai termini di «conciliazione» e di «sintesi», è da credersi ch’egli attribuisse alla data dell’89 l’inizio di una nuova era, la terza, ch’egli definirà più tardi della «ragione autocosciente».
Considerata sotto l’aspetto sociologico, la filosofia di Hegel può apparire dunque come l’espressione della borghesia razionalista, stanca delle avventure della rivoluzione, che cerca in una monarchia illuminata una guida e una più stabile garanzia di «progresso», rinunciando temporaneamente alla sua teorica sovranità. Così Hegel rifiuta l’ipotesi contrattualistica che è uno dei tabù indiscussi del mito democratico.
Un confronto può riuscire utile a tal fine, ed è quello che si può stabilire tra il pensiero di Hegel e quello di Wilhelm Humboldt, che rappresenta quasi in anello di congiunzione tra l’illuminismo e il pensiero romantico. Ebbene, in Humboldt si ritrovano in embrione quasi le medesime idee che saranno esposte da Hegel in sistema: la storia concepita come realizzazione graduale dello spirito dell’Umanità, che nella sua forma ideale e incondizionata sarebbe il fine, mai raggiunto, di ogni attività umana. La storia è quindi per Humboldt, come per Hegel, «lo sforzo dell’Idea per conquistare la sua esistenza nella realtà».
L’idea si manifesterebbe nella storia in una individualità eccezionale, o in popoli che in certi periodi più si sono avvicinati alla realizzazione integrale dello Spirito.
È evidente, a parte qualche sfumatura, l’affinità dei due pensieri. La divergenza si rivela invece, insanabile, nel dominio politico. Nel suo saggio «Idea di un’indagine sui limiti dell’azione dello Stato», Humboldt si riallaccia direttamente a Locke nel limitare i compiti dello Stato a quelli dell’ordine interno e della difesa esterna, col pretesto che ogni suo altro intervento pregiudicherebbe la libera realizzazione dello «spirito dell’Umanità» da parte dei singoli.
Questa, che sembrerebbe l’anticipata confutazione dello Stato etico di Hegel, può spiegarsi invece in base ad una elementare analisi cronologica! Come ha intuito il Guénon, «la filosofia moderna, in definitiva, è anzitutto un’espressione sistematizzata della mentalità generale», che reagisce poi a sua volta su questa, «in una certa misura». Se si pensa che Humboldt, pur essendo contemporaneo di Hegel, scriveva quel suo saggio nel 1792 (sarà poi pubblicato nel 1851, in piena ondata libertaria), si spiega come Hegel, la cui produzione più sistematica è posteriore al 1816, abbia avuto tempo di assimilare la lezione della «storia» nel riconoscere momentaneamente fallita l’opera della rivoluzione. Da qui, in ossequio alla «coincidenza di essere e dover essere», precedentemente formulata nella «Enciclopedia delle scienze filosofiche», la sua adesione allo Stato prussiano, visto come incarnazione della «razionalità assoluta».
Questa tesi può trovare più facile accoglienza se riferita all’ambiente tedesco, tradizionalmente legato alle sue dinastie. Nel mondo germanico e anglosassone perfino la Massoneria, che nei paesi latini è apertamente atea e ferocemente antimonarchica, presenta invece un volto lealista e conservatore, ed è alleata delle Chiese. E non troviamo nello stesso Federico di Prussia autodefinitosi «il primo servitore della nazione», un esempio di sovrano illuminato, massone e amico personale dei «filosofi»?
È facile capire come ciò rientrasse nei piani della sovversione mondiale, che voleva servirsi di quegli Stati in cui la monarchi sui presentava solida e che, d’altro canto, per essere stati precedentemente investiti dall’ondata sovversiva della Riforma protestante, contenevano dei fermenti da coltivare «in vitro». Questo era il ruolo riservato alle monarchie germaniche, scandinave ed anglosassoni, sotto il cui manto protettivo e in conseguenza della loro allentata attenzione agivano forze e individui che propagavano, con un’azione di rimbalzo, le loro pericolose teorie nel resto d’Europa. È il caso della filosofia hegeliana, che servì da supporto a tutti i rivoluzionari romantici d’Europa, di cui troviamo un esempio italiano in Giuseppe Mazzini (non per niente continuamente citato dal Gentile), per non parlare dello stesso Marx, la cui «filosofia» non è che un hegelismo rovesciato.
E qui entriamo nel vivo di una delle maggiori contraddizioni del sistema di Hegel, che giustifica le colorite espressioni di Schopenhauer, per il quale quel sistema non era che «una buffonata filosofica» e «la più vuota, insignificante chiacchierata di cui si sia accontentata una testa di legno». In realtà, se da un lato l’hegelismo si presenta come una filosofia del fatto compiuto e come la giustificazione ottimistica di ogni singolo momento storico che, per la coincidenza del reale e del razionale, è per ciò stesso perfetto, dall’altro lato l’aver attribuito alla storia un movimento dialettico verso un più di autocoscienza, giustifica l’opera di quelle personalità eminenti che sarebbero i motori di tale sviluppo. E se Hegel condanna l’aspirazione ad un infinito mai raggiungibile, propria all’idealismo prima di lui, chiamando questa «il falso infinito» e sostenendo che il vero infinito è quello che si realizza in ogni momento perfetto della storia («l’infinito è l’affermativo e solo il finito è superato»), cionondimeno, perché questo superamento avvenga, non sembra che si possa prescindere dall’intervento dell’eroe romantico innovatore.
Ma Hegel ironizza sulla pretesa dell’intelletto «che tiene i sogni delle sue astrazioni per alcunché di verace ed è tutto gonfio del suo dover essere che anche nel campo politico va predicando assai volentieri; quasi che il mondo avesse aspettato quei dettami per apprendere come dev’essere e non è». Hegel dovrebbe spiegarci come sarebbe possibile il pretesi moto dialettico della storia se ognuno si adagiasse in questa adorazione feticistica del fatto compiuto, in cui si realizzerebbe il «vero infinito». Tale contraddizione potrebbe solo placarsi nell’atteggiamento del filosofo che dall’alto della sua olimpica imperturbabilità contempla la storia, e non può che sorridere degli omuncoli che vi si agitano e si affannano a rincorrere vanamente un falso infinito. Ma quest’atteggiamento trarrebbe a sua volta valore da un’apertura verso la trascendenza, che all’idealismo manca invece del tutto, calato com’è nella storia e in essa esaurientesi.
È da rilevare peraltro come questa contraddizione si rifletta anche nel marxismo, che se da un lato si presenta come puro determinismo storico, dall’altro teorizza la necessità dell’azione rivoluzionaria facendo intervenire arbitrariamente l’artificio della «praxis». Ed è opportuno anticipare che su questa contraddizione si innesterà l’unica rilevante variante all’hegelismo da parte di Gentile, con la pretesa che, mentre l’hegelismo era stato soltanto una dialettica del «pensato», vista cioè a posteriori, l’attualismo sarebbe stato una dialettica del «pensante». Ma nella stessa opera di Hegel si possono distinguere due momenti antitetici. E se nell’«Enciclopedia delle scienze filosofiche» e nei «Lineamenti di filosofia del diritto» egli esprime ciò che è stato definito una «filosofia del fatto compiuto», nella «Fenomenologia dello spirito» maggiormente si può cogliere l’aspetto rivoluzionario attribuito alla dialettica attraverso una vicenda drammatizzata che costituisce esplicitamente la «storia romanzata» della coscienza universale per riconoscersi come autocoscienza. Quello che colpisce nella «Fenomenologia» è l’analogia (mutatis mutandis) con l’interpretazione che della storia darà Carlo Marx, nonché le argomentazioni che sono tipiche dell’illuminismo e del «libero pensiero».
Ma la confusione più pericolosa del sistema hegeliano è senza dubbio quella tra spirito e pensiero, l’Idea concepita non come trascendenza ma attuantesi nella storia e ad essa immanente. «Sein und denken», essere e pensare, per Hegel coincidono, e l’Idea, o ragione infinita che permea di sé l’universo e la storia, è il «Wesen der Welt», il carattere del mondo. La storia sarebbe il divenire dell’Idea e la sua estrinsecazione (cfr. il binomio mazziniano «Dio e popolo» in cui il concetto teisticamente si traduce), identificantesi con lo stesso «processo di autocoscienza dello spirito».
Circa questo «farsi» dello spirito ha giustamente ironizzato J. Evola rimproverando all’Idealismo assoluto di aver abbassato l’Essere al livello del divenire. Ma questa relativizzazione dell’assoluto e assolutizzazione del relativo si rende più manifesta se si guarda alla matrice da cui Hegel ha mutuato la forma triadica della sua «dialettica», che con lui finisce di essere soltanto il metodo del conoscere per diventare anche e soprattutto la legge unica di sviluppo della realtà. La ripartizione della filosofia hegeliana in tre momenti: 1) «La logica» o scienza dell’Idea in sé e per sé, 2) «La filosofia della natura» o scienza dell’Idea nel suo essere altro da sé, 3) «la filosofia dello spirito» o scienza dell’Idea che dal suo alienamento torna all’autocoscienza, deriva chiaramente dal neoplatonismo, e si ritrova altresì nello gnosticismo e in certa misura nello stesso dogma trinitario del cristianesimo ortodosso. Ma mentre nel neoplatonismo e nell’esoterismo in genere si simbolizza un processo assoluto, e quindi atemporale e metastorico, per Hegel questa diventa la legge di sviluppo della realtà, accessibile razionalmente e valida a tutti i livelli dell’ordine temporale.
La confusione tra spirito e pensiero, e l’aver dato una direzione ascendente alla storia, realizzantesi per successive «sintesi» di due contrari, come in una fantastica corsa ad ostacoli, porta il pensiero di Hegel a svilupparsi lungo linee sempre più radicalmente laicistiche e razionalistiche. L’aver razionalizzato la Storia, che d’ora in poi si scriverà con la maiuscola, comporta che il fatto, per il solo suo porsi come tale, è non soltanto vero, ma anche giusto, razionale, bello, positivo. Il passato è, per ciò stesso, ingiusto e irrazionale, a meno di essere sublimato romanticamente nella Storia come momento, in sé stesso perfetto, dello sviluppo dello Spirito. In quanto al conflitto inevitabile tra la razionalità del tutto e la razionalità individuale, questo non poteva riguardare il filosofo di Stoccarda, per il quale l’assoluta razionalità del tutto giustificava ogni tragedia individuale. Ma è inconfutabile che ogni razionalismo ha come corollario necessario l’individualismo, perché è creazione del pensiero, ogni «individuo razionale» è legittimato alle più audaci e sconvolgenti (romantiche) innovazioni di cui solo il successo è misura della razionalità. È chiaro che ciò mette in moto delle reazioni a catena perché, come ha rilevato il Guénon, il solo fatto di propagare certe idee crea una mentalità corrente, o «opinione pubblica», a livello più basso, nella quale è poi facile trovare rispondenza alle più assurde o banali predicazioni, il che è a sua volta misura di successo.
L’individualismo diviene quindi il termine unico della realtà, e l’individuo l’unità di misura di ogni indagine in qualsiasi campo. Ciò comporta la esclusione di tutto ciò che è sopraindividuale e soprarazionale dall’indagine filosofica e scientifica. Circa l’abbassamento e la degradazione di cui è causa ogni razionalismo nelle concezioni che l’uomo ha di sé stesso e del mondo, non è il caso di aggiungere molto. Già Cartesio, padre di ogni razionalismo, aveva posto come criterio della razionalità le «idee chiare e distinte», riducendo il campo d’indagine a tutto ciò che ha i caratteri della chiarezza, con esclusione di ciò che, per appartenere a un dominio superiore, dev’essere necessariamente complesso e oscuro. La pretesa di Hegel che il «razionale esaurisce il reale», prosegue su questa via contribuendo ad una sempre maggiore desacralizzazione del mondo e laicizzazione dell’esistenza. La religione e il mito, insieme alla poesia, sono relegati in quelle zone dell’esistenza e della storia non ancora illuminate dall’autocoscienza dello spirito, stadi necessari al suo sviluppo e per ciò oggetto dell’interesse storico e della dignificazione artistica. Questo spiega l’interesse del Romanticismo letterario verso il Medioevo e le credenze popolari, che soltanto superficialmente può essere presentato come un ritorno o un’inversione di marcia rispetto all’opinione negativa che ne ebbe l’illuminismo.
Hegel non fa così che rafforzare il punto di vista profano, incoraggiando quella che il Guénon chiama «l’illusione della vita ordinaria», e spianando la strada a quello che J. Evola chiama «l’avvento della quarta casta», finché altre correnti filosofiche non si accontenteranno più della presunzione razionalistica che il «razionale esaurisce il reale», ma si proclameranno apertamente agnostiche proclamando inconoscibile il dominio della metafisica e delle conoscenze soprarazionali, ed escludendolo dall’indagine scientifica e filosofica condotta con criteri banalmente meccanicistici, in base ad una visione piattamente e sconsolatamente deterministica.
La tendenza, quindi, verificatasi agli inizi di questo secolo in Italia ad opera de Croce e del Gentile, di ridar vita all’idealismo, se può essere considerata meritoria come reazione contro il clima miserevole instaurato in tutti i domini del positivismo e dal materialismo pratico, non ne combatte gli errori ma si limita a ridurli d’intensità, dimostrando tra l’altro un indubbio provincialismo nel ritornare indietro in uno stadio superato (si usa qui questo termine nel senso corrente e riferito a un dominio in cui la mentalità ormai instaurata lo giustifica) della filosofia, quando ormai attraverso Nietzsche, l’esistenzialismo, il relativismo, l’intuizionismo, la «filosofia dell’azione», il personalismo, ecc. questa si era nettamente, anche se problematicamente, orientata verso un rifiuto degli angusti limiti posti dallo schematismo razionalistico al pensiero umano.
Quanto si è detto circa il significato dell’hegelismo dovrebbe permettere una più facile collocazione della filosofia gentiliana, per la sua derivazione dal primo, del resto riconosciuta dal Gentile stesso che, nel suo «Sistema di logica», affermando l’unicità della filosofia idealistica, dice: «La verità della filosofia e la filosofia vera a cui il filosofo mira non può essere altro che un’elaborazione della sua stessa filosofia. Il cui sviluppo è pure lo sviluppo della verità filosofica». Considerando l’idealismo fase ultima di tutta la filosofia, Gentile riconduce l’attività filosofica alla sola logica, con esclusione di ogni sostanzialismo medievale, eliminato dall’immanenza di ogni realtà e verità nell’atto del pensiero pensante.
(Tratto da Ordine Nuovo, Anno 2, n. 4, dicembre 1971)
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