Dopo le polemiche scatenate dalle sue osservazioni in materia di nazione e nazionalismo, come preannunicato Evola deve tornare sull’argomento e, mantenendosi su un piano strettamente dottrinario e di principio, analizza compiutamente il concetto di impero e di imperialismo, in senso tradizionale (ed allora l’espressione distintiva che potremmo usare è imperialità) e nelle sue degenerazioni contemporanee (si pensi appunto all’imperialismo statunitense ed all’imperialismo finanziario, su cui Evola si sofferma con toni decisamente profetici), e descrive i tratti spirituali e superiori del concetto di universalità (dove c’è integrazione della differenza), connesso a quello di sacrum imperium, rispetto al mero collettivismo (dove c’è abolizione della differenza).
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di Julius Evola
in “La Vita Italiana”, aprile 1931
Alcune cose che abbiamo dette nel nostro scritto: «Due facce del Nazionalismo» (Vita Italiana, n. 3, del 1931), a giudicare dalle ripercussioni che han destato in più d’uno, ci sembrano meritevoli di uno sviluppo ulteriore, che noi manterremo nell’ordine che solo ci interessa, quello dei principii. Diremo le cose quali esse sono, e nessuno si sbaglierebbe tanto, come colui che credesse che certe considerazioni possano esserci state ispirate da circostanze speciali di oggi, presenti in un paese o in un altro.
Si tratta di passare dall’analisi del significato del fenomeno «nazionalismo» all’analisi del significato del concetto: «imperialismo». Inoltre, di determinare i rapporti che intercorrono fra l’una cosa e l’altra. Questo ulteriore problema nei confronti con l’analisi precedente presenta una difficoltà maggiore. Infatti la «nazione» essendo parola nuova per un fenomeno esso stesso relativamente nuovo, il farsi intenderci, a tal riguardo, non era difficile, e si trattava solo di comprendere tale fenomeno in funzione ad una visione storica più integrale e più conforme alla realtà. Invece la nozione di «impero» rimanda a cosa che appartiene ad un mondo ideale molto diverso da quello a cui i moderni sono usi, onde è spiegabile che a tal riguardo si producano delle incomprensioni c delle confusioni più o meno gravi nella gran parte di coloro che oggi si rifanno a detta idea.
Noi abbiamo dimostrato che di nazionalismi ve ne sono due: l’uno è un fenomeno di degenereseenza perchè esprime una regressione dell’individuale nel collettivo (la «nazione»), dell’intellettualità nella vitalità (il pathos e l’«anima» della razza). L’altro è un fenomeno positivo, perché esprime invece la reazione contro forme ancor più vaste di collettivizzamento, quali possono essere p. es. quelle date dalle internazionali proletarie o dalla standardizzazione praticistica su base economico-sociale (America).
Il primo (nazionalismo demagogico) si propone di distruggere negli individui le qualità proprie e specifiche a beneficio di quelle «nazionali». Nel secondo (nazionalismo aristocratico) si tratta di togliere gli individui da uno stato inferiore, in cui siano caduti, ove si trovano l’uno eguale all’altro: si tratta di differenziarli se non altro fino al grado per cui il sentirsi di una determinata razza o nazione esprime un valore e una dignità superiore rispetto al sentirsi uguali (egualitarismo e fraternalismo, «umanità» alla comunistica).
Sviluppandosi il processo per cui il nazionalismo ha il senso di un fenomeno positivo, ci torna dunque al senso della differenza e della gerarchia: gli individui, ridivenendo sè stessi, passano dal piano della materialità, ove non può esservi differenza vera, a quello dell’intellettualità, nel quale partecipano a qualcosa che è non-individuale non per essere sub-individuale (collettivismo) ma, per esser invece superindividuale: partecipano ad una universalità. Ed allora dal nazionalismo si passa all’imperialismo; all’anonimato di grandi realtà più che umane. Ogni vero imperialismo è universale, e si pone come superamento positivo dello stadie nazionalistico.
Vediamo di farci chiara questa posizione. Il punto fondamentale, ad un lettore poco addestrato potrà forse sembrare una sottigliezza logica: è l’opposizione fra collettivismo e universalismo. L’aggregato di varie cose fino ad una mescolanza in cui esse perdono ogni carattere proprio e ogni autonomia come massa amorfa o uniformità di un «tipo», è collettivismo. Risalire dalla molteplicità delle cose differenti sino ad un principio ad un tempo anteriore e superiore alla loro differenziazione, data unicamente dalla loro realtà sensibile, è universalismo. Là, abolizione della differenza. Qui, integrazione della differenza. L’universalità è una realtà puramente spirituale: la si raggiunge risalendo, con una specie di «ascesi», dalla sensibilità e dalla passionalità – dominio del particolare – all’intellettualità pura e, più in genere, ad una forma disinteressata di attività. Essa peraltro nega così poco le realtà individuali, quanto una legge fisica neghi il carattere peculiare di fenomeni molto diversi, che possono avere in essa il loro principio comune.
Abbiamo enunciate queste idee in forma astratta, per poter mantener loro il significato più generale. Ma possiamo subito venire a conseguenze pratiche di una certa importanza, volute dalla distinzione fra collettivismo e universalismo. Vi sono alcune forme ristrette di nazionalismo, che p. es. confondono tendenziosamente l’una cosa con l’altra. Esse estendono dunque una reazione legittima contro tentativi di internazionalizzazione e di cancellamento delle differenze etniche (reazione legittima, perchè si volge contro tendenze verso il livellamento collettivistico) – a cose che invece hanno significato di universalità e esigono la libertà degli individui di fronte all’aspetto collettivistico e infraintellettuale del nazionalismo stesso. A questo riguardo J. Benda, nella sua nota «Trahison des cleres», ha fatto spesso rilievi assai giusti. Noi stessi nel nostro scritto già citato abbiamo accusata la strana pretesa di certi nazionalisti estremisti, di volere una scienza nazionale, una filosofia nazionale, un’arte nazionale, perfino – una religione nazionale.
Ora, voler ciò, significa non rendersi conto per nulla delle possibilità universali presenti in quei fenomeni dello spirito: significa limitarli, trasporli dal piano a loro proprio ad un piano inferiore, cioè etnico, e non più spirituale o intellettuale. Si può porre un dilemma, dicendo che una «scienza nazionale» in quanto è «nazionale» non è scienza, e in quanto è «scienza» non è semplicemente nazionale. E se poi si volesse solo alludere al fatto che una data scienza è stata coltivata particolarmente da persone di una data nazione, e non al risultato oggettivo della loro opera (il quale ha valore di «scienza» in quanto ha valore indipendentemente dalle persone), è chiaro che allora ci si fermerebbe al solo aspetto episodico e biografico, aspetto affatto empirico che nessuno ha il diritto di imporre ad una considerazione di carattere superiore. Il fatto che un dato scienziato non sia della «nostra» terra non fa di certo più falsi e meno accettabili i suoi risultati, se essi sono esatti; e il fatto che egli sia invece della «nostra» terra non li rende più veri e accettabili, se essi sono invece falsi. Se difficilmente qualcuno saprebbe respingere l’evidenza di una simile considerazione, quando è applicata alla scienza – molti credono invece di poterlo fare quando si tratta di altri dominii, p. es. della speculazione, dell’arte, del sovrasensibile. Costoro danno ad intendere una sola cosa: che essi per tutto ciò che non è più materia (scienza) sono ancora ad uno stato di irrealismo, sono ancora incapaci di elevarsi al punto di vista dell’oggettività, della sopra-individualità.

A cosa ha portato il “sacro egoismo” delle nazioni degli inizi del secolo scorso?
Una volta fissato questo punto, è chiaro che un imperialismo è tale, quando domina in virtù di valori universali ai quali una determinata nazione o stirpe si è elevata attraverso la potenza di superare sè stessa. L esattamente il contrario della «morale» del cosidetto «sacro egoismo» delle nazioni. Senza un «muori e divieni» nessuna nazione può aspirare ad una missione imperiale effettiva e legittima. Non si può restar chiusi nei caratteri nazionali per, sulla base di essi, dominare il mondo o semplicemente un’altra terra. Se i tentativi imperialistici dei tempi moderni hanno abortito o hanno portato alla rovina le nazioni che li hanno perpetrati (esempio ultimo: gli imperi centrali), la causa è appunto questa contraddizione del voler ad un tempo «nazione» e «impero», è l’assenza della base di una vera universalità.
I tentativi di cui abbiamo parlato implicano peraltro una degradazione materialistica e barbarica del concetto stesso di impero. Né può essere altrimenti. Dominio vero si ha innalzandosi a ciò che è superiore a quel che si vuol dominare: non si può avere restando allo stesso livello. Come mano, una mano non può presumersi di poter dominare gli altri organi di un corpo: sì invece cessando di essere mano, facendosi anima, cioè risalendo alla funzione unitaria e immateriale che è chiamata a unificare e a dirigere la diversità delle funzioni corporee particolari. L’ipotetico tentativo di una mano che vuole impadronirsi del corpo usurpando la funzione propria ad un’anima, può chiarire lo spirito di certe ideologie imperialistiche di tipo nazionalistico, materialistico e militaristico. Qui il mezzo non è la superiorità, ma la semplice violenza di una forza più forte ma non per questo di natura diversa da quella che essa tende a sottomettere.

Moderne invasioni barbariche: “Arrivati alla superpopolazione, alle nazioni che non hanno spazio, si impone la necessità di un irruzione”.
Ha sicuramente un aspetto di stranezza il fatto che mentre nei quadri della vita di una nazione civile si reputa atto riprovevole quello di chi per il semplice fatto di aver bisogno impadronisce con la violenza degli averi di chi possiede di più – un comportamento consimile nei rapporti fra nazione e nazione sembra la cosa più naturale e più legittima e fa da base dell’anzidetto concetto barbarico dell’imperialismo: una nazione povera, si pensa, ha tutto il diritto di metter le mani sui beni di una nazione più ricca a che possa «espandere» la propria vita; e il sistema – militare o diplomatico per giungere a tanto sarebbe la sacrità conosciuta dagli imperialisti di questo genere. Non basta: in certi casi si crea addirittura un metodo a che una nazione sia spinta ad arte alla necessità dell’espansione, quindi all’«imperialismo».

L’America, esempio di livellamento delle più disparate razze in un unico tipo umano.
Tale p. es. il metodo demografico: arrivati alla superpopolazione, alla condizione di nazioni che «non hanno spazio», si impone la necessità di uno sbocco, di una irruzione la quale, peraltro, ai nostri occhi, finchè il tutto si riduca a questo piano, ha un carattere che assai difficilmente saprebbe venir distinto da quello delle invasioni barbariche. Il materialismo di quest’ultima veduta si palesa inoltre nella mancanza del senso dell’impotenza della quantità e del numero rispetto alla qualità. Se una nazione non ha la salda base di una cultura superiore come qualità, tutte le sue espansioni create dal soprannumero – da quelle emigratorie a quelle militari – raggiungeranno un solo risultato: fornire una materia grezza su cui dominerà un tipo di cultura straniera. I vincitori materialmente saranno dei vinti idealmente. Il caso di Roma con l’Ellade non è precisamente questo, ma già offre un cenno per la comprensione della tesi ora esposta, ed oggi potremmo indicare l’America, singolare crogiuolo nel quale le masse degli immigrati delle tradizioni etniche più diverse dopo due generazioni son state quasi interamente ridotte ad un tîpo unico: laddove l’India, p. es. ha mantenuto intatta la sua unità ideale ad onta dei successivi domini di razze più forti ma qualitativamente inferiori.
A lato di questo falso imperialismo, ve ne è uno altrettanto falso di tipo economico. Certamente, oggi che quasi ogni attività viene condizionata e valutata in termini di economia (in ciò abbiamo già visto il segno dell’avvento della penultima delle antiche caste: quella dei mercanti); vi è terreno propizio a che si formi l’illusione, che dominare e monopolizzare le possibilità economiche di un gruppo di razze possa significare «impero». Ma per chiunque non partecipi dell’abbassamento morale coli caratteristico nello standard of living moderno, la cosa presenta un aspetto indubbio di stravaganza, per non dire di ridicolo.

Cenotafio di Massimiliano I d’Asburgo nella Hofkirche di Innsbruck. I “signori di una volta”…
I Signori di una volta, le quistioni di amministrazione (economia) le lasciavano ai loro liberti e ai loro castaldi. A loro importava essenzialmente coltivare quelle forme superiori, «aristocratiche», di interesse, di vita, di azione e di dignità, che costituivano appunto l’essenza del diritto e della funzione della loro casta. Se qualcuno era atto all’amministrazione e ne aveva la voglia, poteva anche esercitarla: l’esser l’uno o l’altro a sbrigare l’«economia», non poteva interessar loro che ben poco, dato che rimanesse sempre la giusta subordinazione e l’impegno di lealtà dell’uomo senza classe amministratore verso l’aristòcrate o il Principe. Ma oggi le cose stanno ben diversamente. I plutocrati han preso il posto degli aristòcrati, l’amministratore, e il trafficante con l’oro, si presumono «capi» e non riconoscono nessuno al quale debbano rispondere: finchè ad un dato momento la contingenza propria a ogni forza materiale lasciata a sè stessa., priva di ogni principio, noti li travolga e metta altri (quando non addirittura l’anonimato -delle masse) al loro posto.
Entro questi limiti, va valutato il pericolo di «imperialismo», come quello dell’internazionale finanziaria semitica o massonica. Il pericolo esiste ed è reale nei riguardi di chi subisce ed accetta l’abbassamento di ogni criterio e di ogni idea della potenza fino al piano della mera economia. Ma chi invece – individuo o razza – per poco si innalzi al di là da questo piano e metta salde radici là dove le cose non son più da «comprare» o da «vendere» – costui può domandarsi con meraviglia su che cosa possano pensar di aver dominio simili «imperialisti».

Evola profetico: “L’imperialismo da temere? Quello finanziario.”
La considerazione di questi aspetti negativi ci introduce a quella delle condizioni vere e positive per l’Impero. Una razza si desta all’impero quando è capace di porsi di là da sè stessa, quando essa va come va l’eroe, il quale non sarebbe tale se nel suo slancio non vincesse l’istinto che lo terrebbe legato al piccolo amore animale per la sua vita particolare. È per questo che nazionalismo (in senso statico e esclusivistico) e imperialismo sono due termini che si escludono a vicenda. Una razza imperiale si pone così distante dalle particolarità proprie, quanto da quelle che contrassegnano altre razze: non oppone un particolare ad un particolare (una nazione ad un’altra, il diritto di questa al diritto di quella, ecc.), ma oppone l’universale al particolare.
È particolare ciò che è soggettivistico, sentimentalistico, «idealistico» od anche utilitario. È universale ciò che è puro da tutti questi elementi e che può tradursi in termini di pura oggettività.
Nello sviluppo sia dell’individuo che di una cultura o razza, giungere a comprendere il punto di vista della realtà e a volerlo su qualunque altro, è una tappa decisiva, prima della quale si può dire che lo spirito non conosca ancora la vera virilità. Se sono i sentimenti, gli orgogli, i valori, le cupidigie, gli odii, tutto ciò insomma che è elemento «umano» in senso stretto, individuale o collettivo, a guidare una razza, essa sarà necessariamente alla mercè della contingenza propria alle cose che non hanno nessun principio in se stesse. Ma se essa, almeno in una élite di capi, riesce a liberare da tutto ciò i due elementi fondamentali della vita: conoscenza e azione – allora essa si fa atta ad una missione che si può dire già superiore al mondo empirico e politico.
Universalità come conoscenza e universalità come azione: ecco le due basi di ogni epoca imperiale.
La conoscenza è universale, quando giunge a darci il senso di cose, dinanzi alla cui grandezza e alla cui eternità, tutto ciò che è pathos e tendenza degli uomini scompare: quando ci introduce nel primordiale, nel cosmico, in ciò che nel campo dello spirito ha gli stessi caratteri di purità e di potenza degli oceani, dei deserti, dei ghiacciai. Ogni vera tradizione universale ha portato in sè questo soffio del largo, animando con esso forme disinteressate di attività, destando la sensibilità per valori che non si lasciano più misurare da nessun criterio di utilità e di passionalità, sia essa individuale, sia essa collettiva: introducendo presso al «vivere» un «più che vivere». Questo è il tipo di un impero invisibile, che la storia può mostrarci negli esempi p. es. dell’India brahmanica, del medioevo cattolico, dello stesso ellenismo: una cultura unitaria che domina dall’interno, in una varietà anche indipendente di popoli o città, ogni realtà «politicamente» ed economicamente condizionata.
Senonchè possiamo pensare un concetto di Impero, visibile oltre che invisibile, avente una unità materiale oltre a quella spirituale. Si realizza un simile Impero, quando presso all’universalità come conoscenza si abbia anche l’«universalità come azione». Qui, per riferimenti storici, potremmo indicare la Cina antica, Roma, in parte, di nuovo il medioevo nel movimento delle Crociate da un lato, nell’Islamismo dall’altro.
L’azione universalizzata è l’azione pura: è l’eroismo. Così nelle due condizioni dell’imperialità ritroviamo esattamente le qualità che definivano le due caste superiori dell’antichità, quella sapienziale (che non vuol necessariamente dire «sacerdotale») e quella guerriera. Avvertiamo subito che il concetto di «eroismo» di cui si parla, non è quello dei moderni. Nel concetto tradizionale, l’eroismo è una ascesi nel senso più rigoroso del termine, e l’eroe è una natura così purificata dagli elementi «umani», quanto lo è l’asceta: partecipa allo stesso carattere di purità delle grandi forze delle cose, e non ha a che fare con la passionalità, la sentimentalità e i moventi varii, ideali o materiali, collettivi o individuali, degli uomini. Le funzioni specifiche di ciascuna delle antiche caste esprimevano la natura propria, il modo di essere di chi vi apparteneva: così la guerra al guerriero valeva come il suo fine, come la via per la sua stessa realizzazione spirituale. Si combatteva dunque in modo «puro», la guerra in sè stessa era un bene, e l’eroismo era una forma «pura», dunque universale, di attività. La rettorica della «lotta pel diritto», le «rivendicazioni territoriali», i pretesti sentimentali o umanitari. e via dicendo, son cose in tutto e per tutto moderne, affatto estranee al concetto tradizionale dell’eroismo.
Nella Bhagavad-gita, nel Corano, nel concetto latino della mors triumphalis, nell’assimilazione ellenica dell’eroe all’iniziato, nel simbolico Walhalla nordico, dischiuso solo agli eroi, in certi aspetti della «guerra santa» conosciuti dallo stesso feudalesimo cattolico – noi troviamo, variamente formulata, l’idea trascendente, sia supernazionale che superumana, dell’eroismo: l’eroismo qui è un metodo di ascesi virile, di distruzione della natura inferiore, una via di immortalamento e di rapporto con l’eterno. Trasfigurata in una simile atmosfera, l’azione acquista natura universale: diviene quasi una forza dall’alto, capace di tradurre anche in un corpo terreno l’universalità di una tradizione di spirito: è la condizione dell’Impero, nel suo significato supremo (1).

Arjuna, l’eroe della Bhagavad-gita
Son queste riesumazioni anacronistiche e vane? Può anche darsi. Ma allora ciò vuol dire soltanto che le condizioni attuali sono tali, da ridurre a pura rettorica la evocazione, a cui molti indugiano, di ideali e simboli che oggi han perduto il loro senso originario. Ciò non impedisce però che in sede dottrinale si possa e si debba sempre tracciare una linea di demarcazione fra concetto e concetto, e badare a quel che contradizione non consente. Quando i punti di riferimento siano l’«orgoglio nazionale», le «rivendicazioni irredentistiche», le «necessità di espansione», ecc. – ripetiamo – si è nei principii legittimi di una nazione forte moderna, ma non si è di certo in quelli di un’impero. Si pensi se un romano abbia mai combattuto per qualcosa di simile, e se abbia mai avuto bisogno di scaldarsi con qualche rettorica passionale per compiere il miracolo di quella conquista mondiale, attraverso la quale la universalità della luminosa civilizzazione greco-latina si infuse sino alle più lontane terre.
Occorre riportarsi allo stato di forze pure, di forze che vanno con la stessa fatalità e la stessa purezza e la stessa inumanità delle grandi forze delle cose. I grandi conquistatori si sono sempre sentiti quasi «figli del fato», portatori di una forza che doveva realizzarsi e a cui tutto, a partir dalla loro stessa persona, dal loro stesso piacere, dalla loro stessa tranquillità doveva esser piegato e sacrificato. Nel suo significato integrale, l’Impero è qualcosa di superiore, di trascendente: Sacrum Imperium. Come si può dunque associare il mito dell’impero – scrivemmo già qualche anno fa (2) – a questo o quell’«idealismo» o tradizionalismo (in senso ristretto) o sentimentalismo o «utilitarismo»? Come connetterlo alle esigenze di una fazione o nazione, per non dir anche contrada, borgo o paese? Eppure fra i moderni è sin troppo frequente il caso che si finisca in simili assurdità.
Chi rievoca simboli imperiali, quale si sia la terra che ha dato vita al suo corpo, deve esser capace di vedere tutto ciò. Bisogna che sappia che cosa è «nazione» e che cosa è «Impero»: quale è il limite dell’una cosa e quale quello dell’altra. Occorre che la mente gli si schiuda a ciò che nell’uomo nè comincia nè finisce nell’uomo: che egli comprenda, come culminazione della più intensa individualità, l’universalità, sia come conoscenza che come azione. E sopratutto occorre che avendo il senso delle misure a cui oggi si è ridotta innaturalmente ogni cosa, sappia che vi è tutto un mondo a cui dir «no» prima che possano sorgere le chiarità aurorali di una eventuale epoca «imperiale» europea di là dal mondo dei «servi» e dei «mercanti».
Note
(1) Al concetto tradizionale dell’eroismo e della guerra, abbiamo dato ampi sviluppi nei saggi: «Simboli eroici della antica tradizione romana» (Vita Nova, n. 8 del 1929) e: «La Grande e la Piccola Guerra Santa» (ne «La Torre», n. 10 del 1930). A proposito di quest’ultimo scritto, ogni volta che vogliamo farci chiaro fin dove può giungere la malafede e l’impostura nella polemica di certi irresponsabili, ci ricordiamo come la nostra difesa dell’idea tradizionale, secondo la quale la guerra si fa perchè intimo dovere e gioia di una casta guerriera, e non per un pezzo di terra, sia stata senz’altro data come una esplicita nostra affermazione che la… Dalmazia spetta di diritto alla Jugoslavia (!!!).
(2) Cfr. “Imperialismo e stile realistico” nel “Tevere” del 20 gennaio 1929.
Per approfondire le tematiche dell’articolo, si consiglia la lettura de “Gli Uomini e le Rovine“, “Il Mistero del Graal” e dell’antologia “Federalismo Imperiale, scritti sull’idea di Impero 1926-1953″. (N.d.R.)
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