Uomo e donna

Alla vigilia della cosiddetta “festa della donna”, vuoto residuato dei revanscismi femministi, ed in tempi in cui, in nome della dittatura del genderismo, la differenza tra uomo e donna viene ridotta sempre più a mera convenzione sociale, a sovrastruttura, a stereotipo obsoleto da superare in nome dell’ambiguità e dell’indefinibilità sessuale, riproponiamo un capitolo estratto da “Rivolta contro il mondo moderno”, in cui Evola disegna magistralmente le caratteristiche dell’uomo e della donna in senso tradizionale. Uno scritto monumentale per contenuti, chiarezza, precisione, e, come spesso accadeva ad Evola, per l’impressionante spirito profetico con cui il barone riesce a descrivere, con decenni e decenni di anticipo, i tratti del progressivo percorso decadenziale dell’uomo e della donna, dalla figura apicale del maschile e del femminile in senso assoluto, fino alla macchietta cui entrambi i sessi sono ridotti oggi: anticamera del tentativo estremo di farli scomparire nel magma diabolico del “terzo sesso”, del transgenderismo, dell’ibridazione sessuale. Un magma informe in cui a trionfare sarà l’androgino rovesciato, quello orientato unilateralmente il basso (verso un’unica possibilità, quella più gretta e grossolana), parodia e caricatura dell’androgino primordiale, quello in cui invece ogni possibilità dello stato umano si manifesta trionfalmente, sussunta ed indirizzata verso l’alto.

Nell’immagine in evidenza, “La Belle Dame sans Merci” di Frank Dicksee (1901 circa)

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di Julius Evola

Tratto da “Rivolta contro il mondo moderno” (Parte prima, capitolo XX)

A completare queste considerazioni sulla vita tradizionale, si accennerà brevemente al mondo del sesso.

Anche qui, si hanno, nella concezione tradizionale, corrispondenze di realtà a simboli, di azioni a riti; corrispondenze, dalle quali si trassero i principi per la comprensione dei sessi e per le relazioni che in ogni civiltà normale debbono stabilirsi fra uomo e donna.

Il Taijitu (T’ai Chi T’u), celebre rappresentazione della diade complementare dello Yin e dello Yang

Nel simbolismo tradizionale, il principio sovrannaturale fu concepito come «maschio», come «femina» quello della natura e del divenire. In termini ellenici, maschio è l’«uno» – τό έν –  che «è in sé stesso», completo e sufficiente; femina è la diade, principio del diverso e dell’«altro da sé», quindi anche del desiderio e del movimento. In termini indù (Sâmkhya), maschio è lo spirito impassibile – purusha – femina è prakrti, matrice attiva di ogni forma condizionata. La tradizione estremo-orientale nella dualità cosmica dello yang e dello yin espresse concetti equivalenti, onde lo yang – principio maschile – si trova associato alla «virtù del cielo» e lo yin, principio feminile, a quella della «terra» (1).

Considerati a sé, i due principi stanno in opposizione. Ma nell’ordine di quella formazione creativa, che si è ripetutamente detto esser l’anima del mondo tradizionale e che vedremo svilupparsi anche storicamente in relazione al conflitto fra varie razze e varie civiltà, essi si trasformano in elementi di una sintesi nella quale ognuno dei due mantiene però una funzione distinta. Non è questo il luogo di mostrare che dietro alle varie figurazioni del mito della «caduta» spesso si cela l’idea dell’immedesimarsi e perdersi del principio maschile in quello feminile, sino ad un suo passare al modo d’essere di questo.

In ogni caso, quando ciò accada, quando quel che per sua natura è principio a sé, aprendosi alle forze del «desiderio» soggiace alla legge di quel che non ha in sé stesso il proprio principio, è ben di una caduta che si deve parlare. E appunto su ciò, sul piano della realtà umana, si basta l’atteggiamento di diffidenza dimostrato da varie tradizioni nei confronti della donna, spesso considerata come un principio di «peccato», di impurità e di male, come una tentazione e un pericolo per chi volge verso il sovrannaturale.

Senonché alla direzione di «caduta» si può contrapporre un’altra possibilità, la giusta relazione. Essa si stabilisce quando il principio feminile, la cui natura è il riferirsi ad altro, si volga non a cosa che di nuovo fugga, ma ad una saldezza «maschile». Allora si ha un limite. La «stabilità» viene trasmessa e, invero, tanto da trasfigurare intimamente ogni possibilità feminile. In tali termini si ha una sintesi in senso positivo. Occorre dunque una «conversione» del feminile, tanto che esso sia tutto per l’opposto principio: e occorre soprattutto che questo resti assolutamente, integralmente tale. Allora – in simboli metafisici – la femina diviene la «sposa» che è anche la «potenza», la forza strumentale generatrice ricevente il principio primo del moto e della forma del maschio immobile: come secondo la già indicata dottrina della Shakti, che, diversamente espressa, si può ritrovare anche nell’aristotelismo e nel neoplatonismo. E si è accennato alle figurazioni simboliche tantrico-tibetane, assai significative a questo riguardo, in cui il maschio «portatore-di-scettro» è immobile, freddo e fatto di luce, mentre la Shakti che lo avvolge e lo ha per asse è sostanziata di mobile fiamma (2).

Questi significati, già indicati a più riprese, in tale specifica forma fanno da base alla norma tradizionale circa i sessi in senso concreto. E una norma che obbedisce al principio stesso del regime delle caste, epperò rimanda ai due cardini del dharma e della bhakti, o fides: natura propria e dedizione attiva.

“Mutter und Kind” (“Madre e figlio”) di Alfred Bernert (1933), raffigurazione archetipica della maternità assoluta della donna demetrica

Se la nascita non è un caso, non sarà nemmeno un caso – in particolare – che ci si svegli a sé stessi in corpo d’uomo o di donna. Anche qui, la differenza fisica va concepita come corrispondenza di una differenza spirituale; onde si è uomo o donna fisicamente, solo perche lo si è trascendentalmente, e la caratteristica del sesso, lungi dall’essere cosa irrilevante nei riguardi dello spirito, è segno indicatore di una via, di un dharma distinto. Si sa che la volontà di ordine e di «forma» costituisce la base di ogni civilizzazione tradizionale; che la legge tradizionale non spinge verso il non-qualificato, l’uguale, l’indefinito – verso ciò, in cui le varie parti del tutto divengono promiscuamente o atomicamente simili – ma vuole che tali parti siano sé stesse, esprimano sempre più perfettamente la loro natura propria. Così, nel riguardo speciale dei sessi, uomo e donna si presentano come due tipi, e chi nasce uomo deve compiersi come uomo, chi donna come donna, in tutto e per tutto, superando ogni mescolanza e promiscuità: e anche nel riguardo della direzione sovrannaturale, uomo e donna debbono avere ciascuno la propria via, che non può essere mutata senza incorrere in un modo contradittorio e inorganico di essere.

Il modo di essere che corrisponde eminentemente all’uomo, lo si è già considerato; e si è anche detto sulle due forme principali di approssimazione al valore dell’«essere a sé»: Azione e Contemplazione. Il Guerriero (L’Eroe) e l’Asceta sono dunque i due tipi fondamentali della virilità pura. In simmetria con essi, ve ne sono due per la natura feminile.

La donna realizza sé stessa come tale, si eleva allo stesso livello dell’uomo come Guerriero e come Asceta, in quanto è Amante e in quanto è Madre. Bipartizioni di uno stesso ceppo ideale, come vi è un eroismo attivo, cosi ve ne è anche uno negativo; vi è l’eroismo dell’assoluta affermazione e vi è quello dell’assoluta dedizione – e l’uno può esser luminoso quanto l’altro, l’uno può esser quanto l’altro ricco di frutti in sede di superamento e di liberazione, quando sia vissuto con purità, con significato di offerta. Appunto questa differenziazione nel ceppo eroico determina il carattere distintivo delle vie di compimento per l’uomo e per la donna come tipi.

Al gesto del Guerriero e dell’Asceta che, l’uno a mezzo dell’azione pura, l’altro a mezzo del puro distacco, si affermano in una vita che è di là della vita – nella donna corrisponde quello del darsi tutta ad un altro essere, dell’essere tutta per un altro essere, sia esso l’uomo amato (tipo dell’Amante – donna afroditica), sia esso il figlio (tipo della Madre – donna demetrica), in ciò trovando il senso della propria vita, la propria gioia, la propria giustificazione. Non altra la bhakti o fides costituente la via normale e naturale di partecipazione per la donna tradizinale – nell’ordine della «forma», e anche, quando essa sia assolutamente, disindividualmente vissuta, di là dalla «forma». Realizzarsi in modo sempre più deciso secondo queste due direzioni distinte e inconfondibili, riducendo nella donna tutto ciò che è uomo e nell’uomo tutto ciò che è donna, tendendo verso l’«uomo assoluto» e la «donna assoluta» – tale è la legge tradizionale per i sessi, secondo i vari piani di vita.

Lamia and the soldier (first version, 1905), di John William Waterhouse

Così, tradizionalmente, solo mediatamente, attraverso la relazione ad altro – all’uomo – la donna poteva entrare nell’ordine gerarchico sacrale. In India le donne, anche di casta superiore, non avevano una loro iniziazione; esse non appartenevano alla comunità sacrale dei nobili – ârya – che per via del loro padre prima delle nozze e, dopo, per via del loro sposo, che era anche il capo mistico della famiglia (3). Nell’Ellade dorica la donna, in tutta la sua vita, non aveva un suo diritto; da nubile il suo κύριος era il padre (4). A Roma, in conformità ad una spiritualità di tipo affine, la donna, lungi dall’esser la «pari» dell’uomo, era assimilata giuridicamente ad una figlia di suo marito – filiae loco – e ad una sorella dei suoi stessi figli – sororis loco; da fanciulla essa era sotto la potestas del padre, duce e sacerdote della sua gens; sposa, nel matrimonio comune essa era, secondo una rude espressione, in manum viri. Tali statuizioni tradizionali di dipendenza della donna si ritrovano anche altrove (5), e non significavano ingiustizia e prepotenza, come i «liberi spiriti» moderni vorrebbero crederlo, ma valevano e definire i limiti e il luogo naturale della sola via spirituale, conforme alla pura natura feminile.

Qui si può far cenno ad antiche vedute, nelle quali viene ad espressione distinta appunto il tipo puro della donna tradizionale, capace di una offerta che sta sul limite fra ciò che è umano e ciò che è più che umano. Dopo aver ricordato la tradizione azteco-nahua, secondo la quale allo stesso privilegio dell’immortalità celeste propria all’aristocrazia guerriera partecipavano solo le madri morte nel parto (6), in ciò essendo veduto un sacrificio simile a quello di chi cade sul campo di battaglia, si può indicare ad esempio il tipo della donna indù, donna fin nell’intimo, sino alle possibilità estreme della sensualità, ma pur viva in una fides invisibile e votiva, per forza della quale quella offerta, che già si manifestava nella dedizione erotica del corpo, della persona e della volontà, culminava nell’altra – assai diversa e ben oltre i sensi – per cui la sposa gittava la sua vita nelle fiamme del rogo funerario ario per seguire nell’aldilà l’uomo cui si era data. Questo sacrificio tradizionale – pura «barbarie» agli occhi degli Europei e degli europeizzati – onde si ardeva appunto la vedova insieme al corpo dello sposo morto, in sanscrito è detto sati, dalla radice as e dal tema sat, essere, da cui viene anche satya, il vero; e significa anche dono, fedeltà, amore (7). Esso era dunque concepito come la culminazione suprema della relazione fra due esseri di sesso diverso, la relazione in sede assoluta, cioè in sede di verità e di super-umanità. Qui l’uomo assurge al valore di appoggio per una bhakti liberatrice e l’amore si fa una via e una porta. Infatti, era insegnamento tradizionale che la donna, la quale seguiva nella morte il suo sposo, conseguiva il «cielo»; essa si trasmutava nella sostanza stessa del suo sposo (8); partecipava a quella trasfigurazione attraverso il «fuoco» del corpo di carne in un corpo divino di luce, di cui nelle civiltà arie l’arsione rituale del cadavere era il simbolo (9). Analoga era la frequente rinuncia alla vita delle donne germaniche, se lo sposo o l’amante cadevano in guerra.

Si è già indicato come essenza della bhakti in genere l’indifferenza per l’oggetto o materia dell’azione, cioè l’atto puro, la disposizione pura. Ciò può aiutare a far comprendere come in una civiltà tradizionale, come quella indù, il sacrificio rituale della vedova – sati – potesse valere istituzionalmente. Invero, quando una donna si dà e si sacrifica solo per un più forte e corrisposto vincolo di passione umana con l’altro essere, si resta ancora nei quadri di semplici fatti privati di sentimento. È solo quando la dedizione può reggersi e svilupparsi senza sostegno alcuno, che essa partecipa ad un valore trascendente.

Danza nell’harem (Giulio Rosati) (cliccare per ingrandire)

Nell’Islam, nell’istituzione dell’harem, trovarono espressione non diversi significati. Nell’Europa cristiana, affinché una donna rinunci alla vita esteriore e si tragga in clausura, occorre l’idea di Dio – e ciò, inoltre, non ha mai costituito che una eccezione. Nell’Islam a tanto bastava un uomo e la clausura dell’harem era una cosa naturale che nessuna donna ben nata pensava di discutere, né a cui intendeva rinunciare: appariva naturale che una donna concentrasse tutta la propria vita in un uomo, che si amava in un modo cosi vasto e disindividuale, da ammettere che anche altre donne partecipassero dello stesso sentimento e gli fossero unite attraverso lo stesso vincolo e la stessa dedizione. Appunto in ciò viene in luce il carattere di «purità» indicato come essenziale per la via di cui si sta parlando. L’amore che pone condizioni e richiede il contraccambio di amore e di dedizione da parte dell’uomo, è d’ordine inferiore. D’altra parte, un uomo puramente uomo non potrebbe conoscere l’amore in questo senso che feminilizzandosi, epperò decadendo appunto da quella sufficienza interna, per cui la donna può trovare in lui un sostegno, qualcosa che esalti il suo slancio di darsi. Nel mito, Shiva, concepito come il grande asceta delle altezze, con una sola occhiata riduce in cenere Kâma, dio dell’amore, quando questi tentò di destare in lui della passione per la sposa Parvatî. Del pari, vi è un significato profondo nella leggenda circa il Kalki-avatara, ove si parla di una donna che non poteva esser posseduta da nessuno perché gli uomini che la desideravano ed eran presi di lei, con ciò stesso erano trasformati in donne.

Quanto alla donna, in essa vi è veramente grandezza, quando vi è un dare senza chiedere, una fiamma che si alimenta di sé stessa, un amare tanto di più, per quanto più l’oggetto di questo amore non si lega, non discende, crea distanza; per quanto più egli è il Signore anziché semplicemente lo sposo o l’amante. Ora, nello spirito dell’harem vi era molto di questo: il superamento della gelosia, quindi dell’egoismo passionale e dell’idea di possesso da parte della donna, cui pur si chiedeva la dedizione claustrale da quando si destava a vita di fanciulla sino al tramonto, e la fedeltà a chi poteva anche avere intorno a sé altre donne, possederle tutte senza «darsi» a nessuna. Appunto in questo «inumano» vi era dell’ascetico, si può quasi dire del sacro (10). In questo apparente farsi una cosa arde un possesso vero, un superamento – ed anche una liberazione: poiché dinanzi ad una fides cosi incondizionata, l’uomo nel suo aspetto umano non è più che un mezzo e già si destano possibilità in ordine a ciò che non è più terrestre. Come la regola dell’harem imitava quella dei conventi, così la legge islamica per la donna la portava, secondo le possibilità della sua natura, non esclusa ma compresa, anzi esasperata la vita stessa dei sensi, sul piano stesso dell’ascesi monacale (11). Del resto, in grado minore un atteggiamento analogo della donna è da considerarsi come il presupposto naturale nelle civiltà dove l’istituto del concubinato ebbe un carattere a suo modo regolare e fu legalmente riconosciuto come un complemento del matrimonio monogamico: così in Grecia, a Roma e altrove. L’esclusivismo sessuale vi era parimenti superato.

Venere e Adone (1789-1794, particolare) di Antonio Canova

Naturalmente qui non abbiamo in vista ciò a cui materialmente, nell’uno o nell’altro caso, poté essersi ridotto l’harem, e ogni altra analoga istituzione; abbiamo in vista ciò cui corrispondono nella pura idea tradizionale, epperò la possibilità superiore di cui, in linea di principio, esse restavano suscettibili. E compito della tradizione – lo si ripete- scavare dei saldi alvei, a che le correnti caotiche della vita fluiscano nella direzione giusta. Liberi, sono coloro che assumendo questa direzione tradizionale non la sentono come imposta, ma vi si sviluppano spontaneamente, vi si riconoscono, tanto da attenuare quasi con un moto dall’interno la possibilità più alta, «tradizionale», della loro natura. Gli altri, quelli che seguono materialmente le istituzioni, obbedendo, ma senza comprenderle e viverle, sono i sorretti: per quanto privo di luce, il loro ubbidire li porta virtualmente oltre la loro limitazione di individui, li dispone sulla stessa direzione dei primi. Ma per coloro che non seguono né nello spirito, né nella forma l’alveo tradizionale, non vi è che il caos. Sono i perduti, i caduti.

Tale è il caso dei moderni anche per quanto riguarda la donna. In verità, non era possibile che un mondo, il quale ha «superato» le caste restituendo – per esprimersi in gergo giacobino – ad ogni essere umano la sua «dignità» e i suoi «diritti», potesse conservare un qualche senso delle giuste relazioni fra i due sessi. L’emancipazione della donna doveva fatalmente seguire a quella del servo e alla glorificazione del senza-classe e del senza-tradizione, cioè del paria. In una società, la quale non comprende più né l’Asceta, né il Guerriero; in una società in cui le mani degli ultimi aristocrati, più che per spade o per scettri, sembrano fatte per racchette da tennis o per shakers da cocktails; in una società nella quale – quando non sia la scialba larva dell’«intellettuale» e del «professore», il fantoccio narcisistico dell’«artista» o la macchinetta affaccendata e sudicetta del banchiere e del politicante – il tipo dell’uomo virile è rappresentato dal pugile o dal divo del cinema: in una tale società era naturale che anche la donna si levasse e rivendicasse pure per sé una «personalità» e una libertà proprio nel senso anarchico e individualistico dei tempi ultimi.

E mentre l’etica tradizionale chiedeva all’uomo e alla donna di essere sempre più sé stessi, di esprimere con tratti sempre più decisi ciò che fa dell’uno un uomo, dell’altra una donna – ecco che la civiltà nuova volge verso il livellamento, verso l’informe, verso uno stadio che invero non sta al di là, ma al di qua dell’individuazione e della differenza dei sessi.

L’abisso del movimento femminista

E si è scambiata per conquista una abdicazione. Dopo secoli di «schiavitù» la donna ha voluto dunque esser libera, esser per sé stessa. Ma il cosidetto «feminismo» non ha saputo concepire per la donna una personalità, se non ad imitazione di quella maschile, sì che le sue «rivendicazioni» mascherano una sfiducia fondamentale della donna nuova verso sé stessa. L’impotenza di questa ad essere ed a valere come ciò che essa è: come donna e non come uomo. Per una tale incomprensione, la donna moderna ha sentito una affatto imaginaria inferiorità nell’esser solo donna e quasi un’offesa nell’esser trattata «solo come donna». Tale è stata l’origine di una vocazione sbagliata: essa, appunto per questo, ha voluto prendersi una rivincita, rivendicare la sua «dignità», mostrare il suo «valore» – passando a misurarsi con l’uomo.

Senonché non si è trattato per nulla dell’uomo vero, bensì dell’uomo-costruzione, dell’uomo-fantoccio di una civiltà standardizzata, razionalizzata, non implicante quasi più nulla di davvero differenziato e qualitativo. In tale civiltà, evidentemente, non può esser più quistione di un qualunque legittimo privilegio, e le donne incapaci di riconoscere la loro naturale vocazione e di difenderla, non fosse che sul piano più basso (perché nessuna donna sessualmente felice sente mai il bisogno di imitare e di invidiare l’uomo), potettero facilmente dimostrare di possedere virtualmente anch’esse le facoltà e le abilità – materiali e intellettuali – che si trovano nell’altro sesso e che, in genere, si richiedono e si valutano in una società di tipo moderno. L’uomo, del resto, ha lasciato fare da vero irresponsabile, anzi ha aiutato, ha spinto lui stesso la donna nelle strade, negli uffici, nelle scuole, nelle fabbriche, in tutti i trivii contaminatori della società e della cultura moderna. Cosi l’ultima spinta livellatrice è stata data. E là dove l’evirazione spirituale dell’uomo moderno materializzato non ha restaurato tacitamente il primato, proprio alle antiche comunità ginecocratiche, della donna etèra arbitra di uomini abbrutiti dai sensi e lavoranti per lei, il risultato è stato la degenerescenza del tipo feminile sin quasi nelle caratteristiche somatiche, l’atrofia delle sue possibilità naturali, il soffocamento della sua specifica interiorità.

Da qui il tipo della garҫonne e la ragazza svuotata, vana, incapace di qualsiasi slancio di là da sé stessa, incapace – alla fine – della stessa sensualità e peccaminosità: giacché per la femina moderna le possibilità dello stesso amore fisico spesso non offrono più di tanto interesse quanto il culto narcisistico del proprio corpo, il mostrarsi con vestiti o con meno vestiti che sia possibile, il training fisico, il ballo, lo sport, il danaro, e via dicendo. Già l’Europa ben poco sapeva della purità dell’offerta e della fedeltà che tutto dà e nulla chiede; di un amore abbastanza forte da non aver bisogno di esclusivismi. A parte una fedeltà puramente conformistica e borghese, l’amore che l’Europa aveva eletto è quello che non tollera all’amato di non amare. Ora, quando la donna, per consacrarglisi, pretende che un uomo con l’anima e col corpo le appartenga, essa ha già non solo «umanizzata» e immiserita la sua offerta, ma soprattutto ha cominciato a tradire l’essenza pura della feminilità per prendere in prestito anche sotto questo riguardo un modo d’essere proprio alla natura maschile – e della più bassa: il possesso, il diritto sull’altro e l’orgoglio dell’Io. Allora è venuto il resto e, come in ogni caduta, secondo una legge di accelerazione.

In un momento successivo, per incremento di egocentrismo, non saranno più nemmeno gli uomini ad interessarla, ma solo ciò che essi potranno darle per il suo piacere o la sua vanità. Come epilogo,  forme di corruzione che si accompagnano con altrettanta superficialità, ovvero una vita pratico-esterioristica di tipo maschile che l’ha snaturata e gettata nella stessa fossa maschile del lavoro, del guadagno, dell’attività pratica parossistica e perfino della politica.

Non diversi i risultati dell’«emancipazione» occidentale, che peraltro è ormai sulla via di contagiare tutto il mondo con maggiore rapidità di una peste.

La donna tradizionale, la donna assoluta, nel darsi, nel non vivere per sé, nel volere esser tutta per un altro essere con semplicità e purità, si compiva, si apparteneva, aveva un suo eroismo – e, in fondo, si faceva superiore all’uomo comune. La donna moderna nel voler essere per sé si è distrutta. La bramata «personalità» le sta togliendo ogni personalità.

Ed è facile prevedere che cosa debbano divenire, a questa stregua, le relazioni fra i due sessi, anche nel loro lato materiale. Qui, come nel magnetismo, tanto più alta e viva è la scintilla creativa, per quanto più decisa è la polarità: per quanto più l’uomo è veramente uomo e la donna veramente donna.

Che cosa può esservi invece fra questi esseri misti, privi di ogni rapporto con le forze della loro natura più profonda? Fra questi esseri in cui il sesso comincia e finisce nel semplice piano fisiologico, quand’anche sin qui non si affaccino già inclinazioni abnormi da «terzo sesso»? Fra questi esseri che nell’anima non sono né uomo, né donna, ovvero donna l’uomo e uomo la donna, e vantano come un aldilà del sesso ciò che è effettivamente un aldiquà del sesso? Ogni relazione non potrà più avere che un carattere equivoco e sfaldato: promiscuità cameratistiche, morbose simpatie «intellettuali», banalità del nuovo realismo comunistico – ovvero essa risentirà di complessi nevrotici e di tutti gli altri su cui il Freud ha edificato una «scienza» che é davvero un vero segno dei nostri tempi. Non diverse le possibilità del mondo della donna «emancipata»: e le avanguardie di un tale mondo, la Russia e il Nord America, sono già presenti e danno, a tale riguardo, testimonianze piene di significato (12).

Ora, tutto ciò non può non avere ripercussioni in un ordine di cose, che va molto più in là di quel che, nella loro avventatezza, i moderni possono sospettare.

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Note

(1) Ulteriori riferimenti metafisici e mitici in J. Evola, Metafisica del Sesso. Si trova particolarmente presso i filosofi della dinastia Sing l’insegnamento, che il Cielo «produce» gli  la Terra le donne, e che per questo la donna deve esser soggetta all’uomo, come la terra lo è al cielo (cfr. Plath, Religion der alten Chinesen, I, p. 37).

(2) Nel simbolismo erotico delle suaccennate tradizioni, lo stesso significato è dato nella figurazione della coppia divina in viparîta-maithuna, cioè in un amplesso in cui il maschio è immobile, ed è la shakti a sviluppare il movimento.

(3) Cfr. E. Sénart, Les castes dans l’Inde, cit., p. 68; Mânavadharmashâstra, IX, 166; V, 148; cfr. V, 155: «Non vi è sacrificio o culto o ascesi che si riferisca particolarmente alla donna. La moglie ami e veneri il suo sposo, e sarà onorata in cielo». Qui non ci si può fermare a trattare del senso del sacerdozio feminile e a dire perché esso non contraddice l’idea ora esposta: tale sacerdozio tradizionalmente ebbe carattere lunare; anziché un’altra via, esprimeva un potenziamento del dharma feminile come assoluto cancellamento di ogni principio personale per dar libero spazio, ad esempio, alla voce dell’oracolo e del dio. Più giù, si dirà però dell’alterazione propria a civiltà della nza, nel|e quali l’elemento lunare-feminile usurpa il vertice gerarchico. A parte, va considerato l’uso sacrale e iniziatico della donna nella «via del sesso» (su ciò cfr. J. Evola, Metafisica del Sesso).

(4) Cfr. Handbuch der klassischen Altertumswissenschats, vol. IV, p. 17.

(5) Così anche per la Cina antica si legge nel Nujie jibian (V): «Quando una donna passa dalla casa paterna a quella dello sposo, perde tutto, perfino il nome. Essa non ha più nulla in proprio: ciò che essa porta, ciò che essa è, la sua persona, tutto appartiene a colui che le si dà come sposo», e nel Nuxian shu si sottolinea che una donna deve essere nella casa «come un’ombra e un semplice eco» (cit. apud S. Trovatelli, Le civiltà e le legislazioni dell’antico Oriente, Bologna, 1890, pp. 157-158).

(6) Cfr. A. Réville, Les religions du Mexique, de l’Amérique Centrale et du Pérou, p. 190.

(7) Cfr. G. De Lorenzo, Oriente ed Occidente, Bari, 1931, p. 72. Usanze analoghe si ritrovano anche presso altri ceppi indoeuropei: presso Traci, Greci, Sciti e Slavi (cfr. C. Clemen, Religionsgeschichte Europas, Heidelberg, 1926, vol. l, p. 218). Nella civiltà degli lncas il suicidio delle vedove per seguire il marito, se non era statuito da una legge, pure era usuale e cadevano in disprezzo quelle donne, che non avevano il coraggio di compierlo o credevano di aver motivi per dispensarsene (cfr. A. Réville, Les religions du Mexique, cit., p. 374).

(8) Cfr. Mânavadharmashâstra, IX, 29: «Colei che non tradisce il suo sposo e i pensieri, le parole e il corpo della quale sono puri, consegue dopo la morte lo stesso soggiorno del suo sposo».

(9) Cfr. Brhadâranyaka-upanishad, VI, ii, 14; Proclo, In Timaeum, V, 331b; TI, 65b.

(10) Nel Mânavadharmashâstra non solo si prescrive che la donna mai debba avere una iniziativa propria e debba, secondo la sua condizione, esser cosa del padre, dello sposo o del figlio (V, 147-148; IX, 3), ma si dice (V, 154): «Anche se la condotta dello sposo non è retta: anche se egli si da ad altri amori e sia privo di qualità, pure la donna deve venerarlo come un dio».

(11) L’offerta sacrale del corpo e della stessa verginità si trova statuita in forma rigorosa in un altro oggetto di scandalo per i moderni: nella prostituzione sacra, praticata in antichi templi siriaci, licii, lidii, tebani d’Egitto e cosi via. La donna doveva far la prima offerta di sé stessa non per un movente passionale orientato verso un dato uomo; essa doveva darsi al primo uomo, che nel recinto sacro le porgesse una moneta, di qualunque valore: nel senso di un sacrificio sacro, di una offerta alla dea. Solo dopo questa offerta rituale del suo corpo la donna poteva sposarsi. Erodoto (I, 199) riferisce significativamente che «una volta tornata a casa, si può offrire [a quella fanciulla divenuta donna] la più forte somma: non si otterrà più nulla da lei»; cosa che già da sola dice quanto poco entrasse in tutto ciò «dissolutezza» e «prostituzione».

(12) Secondo statistiche già del 1950, fatte anche su base medica (C. Freed e W. S. Kruger), pel 75% le ragazze nord-americane sarebbero «sessualmente anestesizzate» e la loro «libido» (per usare il termine freudiano) sarebbe dislocata nella direzione del narcisismo esibizionistico. Nelle donne anglosassoni in genere, l’inibizione nevrotica della vita sessuale e propriamente feminile era caratteristica, e derivava dal loro essere vittime di un falso ideale di «dignità», oltre che dai pregiudizi del moralismo puritano. La reazione della cosidetta «rivoluzione sessuale» non sta portando che ad un insipido regime di corruzione spicciola, al sesso come genere corrente di consumo.



A proposito di...


'Uomo e donna' 1 Commento

  1. 29 Marzo 2018 @ 15:11 Uomo e Donna | Teseo

    […] Fonte: Rigenerazione Evola – Uomo e Donna […]

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"In una civiltà tradizionale è quasi inconcepibile che un uomo pretenda di rivendicare la proprietà di una idea e, in ogni caso, in essa chi così facesse, con ciò stesso si priverebbe di ogni credito e di ogni autorità, poiché condannerebbe l’idea a non esser più che una specie di fantasia senza alcuna reale portata. Se una idea è vera, essa appartiene in egual modo a tutti coloro che sono capaci di comprenderla; se è falsa, non c’è da gloriarsi di averla inventata. Una idea vera non può essere «nuova», poiché la verità non è un prodotto dello spirito umano, essa esiste indipendentemente da noi, e noi abbiamo solo da conoscerla. Fuor da tale conoscenza, non può esservi che l’errore" (R. Guénon)

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